Ancora altri morti nel Mediterraneo: questa volta nello Jonio, dove il 26 febbraio è naufragato un peschereccio, rilasciando sulla spiaggia di Crotone oltre 70 cadaveri. Ed imprecisato risulta il numero dei dispersi. Ancora una volta il Mediterraneo si conferma come il confine più pericoloso del mondo.
L’alta mortalità dei migranti che lo attraversano è dovuta certamente all’attività di trafficanti di uomini che, senza scrupoli, stipano decine e decine di persone su barconi vecchi e insicuri, ma anche alle politiche di contenimento del fenomeno migratorio adottate dai paesi dell’Unione Europea negli ultimi anni.
Dopo l’annullamento della missione Mare Nostrum, che effettuava attività di soccorso spingendosi anche nelle acque territoriali dei paesi africani, l’Unione Europea non solo non ha svolto azioni positive per contrastare la mortalità nel Mediterraneo ma anzi ha adottato misure che la favoriscono: basti pensare al caso dell’attuale governo italiano che ha vietato alle ONG di effettuare salvataggi multipli nell’ambito di una stessa missione.
Alle scelte compiute dagli stati europei rispetto ai migranti che attraversano il Mediterraneo si può ben applicare il concetto di “necropolitica”, coniato da Achille Mbembe, filosofo e storico camerunense, per riferirsi alle forme di dominio coloniali e postcoloniali, in cui il potere si esprime attraverso la scelta di “lasciar morire”.
Le persone indesiderate non vengono uccise direttamente, come avveniva di regola nelle forme di sterminio del passato. La morte dei migranti e delle migranti è provocata dall’applicazione sistematica di una serie di pratiche, sostenute da discorsi che tendono da una parte a giustificare e dall’altra a nascondere la decisione politica dell’abbandono.
Se poi ci spostiamo sulla rotta orientale, ci troviamo di fronte a:
1) l’indecente scambio “soldi contro trattenimento dei migranti nel proprio paese”, che l’Europa ha stipulato con la Turchia, paese che certo non brilla nel campo della tutela dei diritti umani
2) la vergogna dei campi installati nelle isole greche in cui i richiedenti asilo sono immobilizzati per periodi lunghissimi, senza un adeguato servizio igienico sanitario e senza un’adeguata assistenza, anche psicologica, di cui ci sarebbe un estremo bisogno.
Medici Senza Frontiere ha parlato di «un’emergenza di salute mentale» e ha denunciato che nel campo di Moria a Lesbo si verificano episodi di dissociazione mentale, fenomeni di autolesionismo e tentativi di suicidio, anche tra i minori.
I campi in Turchia, nelle isole greche, così come quelli in Bosnia o quelli in Libia dove vengono ricondotti i migranti intercettati da una guardia costiera lautamente finanziata dal governo italiano, esercitano sui corpi e sulle vite dei migranti un potere coercitivo basato su un insieme di norme, di regole che vengono abilmente presentate come necessarie, e quindi moralmente tollerabili.
Una politica del genere ha infatti necessariamente bisogno, nella “civile” Europa, di strategie di autogiustificazione che rendano socialmente accettabili le atrocità che vengono commesse per tenere lontana un’umanità “indesiderata”.
La strategia principale è quella della “costruzione dell’alterità”, ovvero il presentare il migrante come espressione di un’umanità diversa, estranea, la cui caratteristica precipua è la pericolosità, in quanto il migrante minaccia la nostra sicurezza, il nostro benessere, la nostra salute, il nostro sistema di valori.
Una strategia intrinsecamente politica, in quanto finalizzata a distrarre l’attenzione della gente dai problemi reali che l’affliggono e di cui sono responsabili quasi sempre i rappresentanti delle classi dirigenti. Parliamo del classico ricorso all’individuazione di un capro espiatorio su cui scaricare la responsabilità di gran parte dei mali che affliggono una comunità.
Dal momento che “la costruzione dell’alterità” è un fenomeno socio-culturale molto significativo e complesso, verrà approfondito in modo più adeguato in un successivo articolo.
Fonti: sito di Comune.