Storie di un’accoglienza possibile

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Vogliamo iniziare il nuovo anno raccontando alcune storie di concreta solidarietà, con la speranza che queste possano moltiplicarsi e rappresentare un effettivo contrasto alla politica degli Stati europei di respingimento dei profughi e di totale indifferenza di fronte ai loro drammi.

Iniziamo con la storia di Antonio Calò e di sua moglie Nicoletta, genitori di quattro figli, che nel 2015 hanno aperto le porte della loro casa nel trevigiano a sei ragazzi migranti, sopravvissuti ad un naufragio nel Mediterraneo, rispondendo ad un appello della Prefettura.

Hanno costituito una cooperativa ad hoc e in questo modo hanno potuto ospitare quelli che chiamano «i nostri figli venuti da lontano», fortemente provati dall’esperienza vissuta in Libia nei centri di detenzione. «L’accoglienza è una risorsa e un’opportunità – dice Calò – e adesso la nostra esperienza sta diventando un progetto europeo. La nostra storia può diventare tante storie ma bisogna che ci sia una nuova narrazione dell’immigrazione».

I primi mesi sono serviti  per curare le ferite psicologiche di questi ragazzi, attraverso terapie individuali e di gruppo. Poi i ragazzi hanno compiuto un percorso di studio e in seguito un tirocinio professionalizzante al termine del quale sono stati tutti assunti. Oggi abitano tutti da soli, lavorano e alcuni si sono sposati.

Attraverso la cooperativa, la famiglia ha ricevuto un contributo di 30 euro al giorno a ragazzo, utilizzati per pagare il raddoppio delle bollette, gli operatori, i medici, le attività sportive. La famiglia non si è certo arricchita, «se non di umanità», come dice Calò, ora impegnato ad esportare il suo modello di accoglienza in tutta Europa, attraverso la richiesta di accogliere sei persone in ogni comune di 5000 abitanti.

Un altro bell’esempio di solidarietà è quello che ha permesso il ricongiungimento in Italia della famiglia di Shapoor Safari, un cuoco afghano che da molti anni vive nel nostro paese e lavora in un ristorante palermitano. Il 13 dicembre è arrivata finalmente in Italia la sua famiglia, grazie ad un crowdfunding lanciato sulla piattaforma GoFundMe, che in poche settimane ha raccolto i 10 mila euro necessari per il viaggio.

Dichiara Shapoor: «Sono felice di aver potuto riabbracciare la mia famiglia […]. Grazie all’aiuto di tutta la comunità del ristorante dove lavoro, del sindaco e di tutte le persone che mi hanno sostenuto adesso questo sogno è realtà. […] Il mio cuore scoppia di gioia». Nel ristorante dove lavora, Shapoor, nell’attesa dei suoi cari, ha preparato arancine ripiene di doppiaza afghana, un piatto tradizionale del suo paese (uno stufato di cipolle e vitello) che sono state molto apprezzate dai clienti del ristorante.

Ora i nove parenti di Shapoor, lontani dall’inferno afghano, possono coltivare la speranza di ricostruirsi una vita normale: come ad esempio la sua giovane nipote che ha studiato per diventare ostetrica, ha fatto nascere molti bambini, ma a cui, da quando i talebani hanno ripreso il potere, è stato vietato di lavorare, o sua sorella maggiore che per tanti anni è stata addetta alle pulizie negli uffici delle Banca Centrale dell’Afghanistan.

Concludiamo con un’ultima storia che arriva dalla Polonia, dove una rete di un centinaio di cittadini sta salvando  la vita dei profughi che sono riusciti ad attraversare la frontiera con la Bielorussia, nascondendoli nelle case e allontanandoli in auto dalla zona di confine. Non ne parlano con nessuno perché l'unico aiuto possibile qui è illegale.

Hanno dato vita infatti ad una rete clandestina, che si fonda sul passaparola. L’obiettivo è rendere più difficili i respingimenti in Bielorussia che le autorità polacche stanno conducendo nei confronti dei migranti, senza tener conto della volontà di chiedere asilo: una pratica in aperto contrasto con i trattati internazionali, ma che di fatto viene adottata in molti Stati ai confini dell’Europa.

Come si legge sul sito di Lavialibera, «c’è chi gestisce le richieste di aiuto dei migranti nascosti nella foresta, chi organizza i dettagli dei viaggi, e poi ci sono gli abitanti dell’area d’emergenza: il lenzuolo di terra che si trova a tre chilometri dal confine e a cui, per volere del governo polacco, da quasi tre mesi non possono accedere né le organizzazioni umanitarie né i giornalisti. Ai residenti spetta il compito di lasciare cibo, acqua e vestiti in determinati punti del bosco. Alcuni fanno di più: in attesa del momento giusto per farli scappare, ospitano i migranti in casa, preparandogli anche da mangiare».

Spesso chi organizza il trasporto dei migranti lontano dal confine viene fermato e portato in prigione. Un’esperienza traumatica, come quella  dei profughi che, una volta scoperti, vengono riportati, stremati dopo la lunga permanenza nella foresta, al confine. Chi è stato arrestato ora rischia di essere processato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e la pena può arrivare fino a otto anni di carcere.

Ecco, sono persone come queste che ci permettono di sperare che il senso della solidarietà non si sia del tutto spento in questo mondo dove sembra ormai dominare la barbarie. 


Fonti

Repubblica del 5 e del 14 dicembre 2021, Sito di Lavialibera.