Le parole per parlare della crisi eco-climatica

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Le parole hanno un peso: linguaggio e negazione della crisi climatica

Le parole plasmano il mondo. Sembra una frase banale, ma è vero; le parole hanno un peso importante, perciò dovremmo sceglierle con cura.
Citando la sociolinguista Vera Gheno, tre azioni potrebbero aiutarci a raggiungere questo scopo: coltivare il dubbio, «perché l’unico modo di aumentare la conoscenza è sapere di non sapere», concederci il lusso di riflettere prima di parlare e infine darci la possibilità di scegliere la strada del silenzio di fronte ad argomenti che conosciamo poco e di cui non siamo competenti. «Alla fine è buffo» – dice Gheno – «perché in qualche modo sono tre richieste che non riguardano direttamente la lingua, ma delle quali la lingua è una conseguenza».

Ma da dove arriva l’esigenza di parlare di comunicazione della crisi climatica? Facciamo un passo indietro: i primi anni del nuovo millennio furono il periodo in cui nacque la cosiddetta “industria della negazione”, ossia l’organizzazione di forze economiche, sociali e politiche creatasi per minare la credibilità degli scienziati e impedire l’adozione di provvedimenti che avrebbero potuto mettere in discussione il modello di sviluppo attuale e il sistema socio-economico neoliberista. All’interno di questa “industria”, i repubblicani dell’amministrazione Bush diedero un gran contributo: per esempio, invitarono a presentare come incerta la posizione della scienza sul riscaldamento globale, inoltre si sollecitò una ridefinizione linguistica, con l’introduzione dell’espressione “cambiamento climatico” al posto di “riscaldamento globale”, in quanto meno allarmante: in una nota interna ai repubblicani nel 2003, il consulente per le comunicazioni Frank Luntz sostenne che «mentre riscaldamento globale implica connotazioni catastrofiche, cambiamento climatico suggerisce una sfida più controllabile e meno emozionale».
D’altro canto, se è vero che l’espressione “riscaldamento globale” sarebbe più corretta, risulta tuttavia parziale, in quanto si concentra solo sull’aspetto della temperatura del pianeta e non tiene conto di tutte le altre caratteristiche della crisi climatica. Per tali motivi, gli stessi attivisti per il clima e gli scienziati preferiscono parlare di “crisi” o “emergenza” eco-climatica. Nonostante ciò, l’espressione “cambiamento climatico” rimane quella maggiormente utilizzata: ne sono un esempio gli stessi organi istituzionali che se ne occupano, come l’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico).
Oggi il negazionismo della crisi climatica è ancora presente, ma è diventato più sottile e strisciante: forse, proprio per questo, è ancora più pericoloso. Si manifesta spaziando dagli inviti a non drammatizzare il problema, minimizzando le possibili conseguenze negative, alle raccomandazioni a fidarsi del fatto che la scienza troverà una soluzione a tutto; altre volte, si presentano i costi economici e sociali di un cambiamento di modello come superiori a quelli del cambiamento climatico. Inoltre, un effetto collaterale molto comune consiste nella tendenza all’inazione, a volte paradossalmente legata alla consapevolezza della gravità del problema.
Ma perché le forme di negazionismo funzionano? Perché sono rassicuranti. Accettando la spiegazione negazionista, ci si protegge dall’ansia per il futuro e non si è costretti a mettere in discussione il modello di vita e di consumo attuale. La verità mette a disagio e tende a creare uno scarto tra la consapevolezza e ciò che si fa col proprio stile di vita (fenomeno chiamato dissonanza cognitiva), attiva emozioni negative e la sgradevole consapevolezza di sentirsi impotenti. Così, le persone finiscono per vivere in una “doppia realtà”, evitando di connettere le proprie conoscenze con piani d’azione concreti.
Quello della crisi climatica è un tema delicato, in quanto connesso alle nostre responsabilità di cittadinə: riguarda anche i nostri comportamenti nell’ambito dei consumi e dei comportamenti pro-ambientali (quei comportamenti che riducono l’impatto che un individuo ha sul mondo, ad esempio utilizzare mezzi di trasporto non inquinanti, riciclare, evitare sprechi d’acqua).
Rinvia, in sostanza, al contributo che ognunə di noi può dare sia nelle proprie scelte di consumo quotidiane, sia e soprattutto esercitando pressione affinché i decisori politici reputino queste problematiche degne di attenzione.
Ed è qui che bisogna porre molta attenzione: è importante far capire l’urgenza del problema senza però innescare reazioni di difesa o rifiuto, o il senso di impotenza e rassegnazione, che portano alla rimozione e alla convinzione che non siamo più in tempo per intervenire. Le principali emozioni che si attivano in questi casi sono paura e senso di colpa: potenzialmente, potrebbero motivare all’azione, ma se molto forti (come spesso capita) portano a tutto il suo opposto; per esempio, il senso di colpa è molto efficace nell’attivare la dimensione etica, ma può dar luogo a reazioni di rifiuto della responsabilità quando lo scarto tra gravità delle possibili conseguenze e reali possibilità di intervento è troppo ampio.
Ciò può portare a sottovalutare le informazioni ricevute, minimizzare la gravità del problema, credere che il problema riguardi altri o altri paesi, fidarsi troppo delle capacità della tecnologia di risolvere il problema, tranquillizzarsi perché la maggior parte delle persone non se ne preoccupa, cedere al fatalismo.
Tutto ciò porta a cedere all’apatia o “intorpidimento psichico”: è come se le persone avessero una “riserva di preoccupazioni” finita che una volta esaurita porta a ignorare i problemi, e dove in definitiva non c’è spazio per la crisi climatica.

 

Ecoansia, una possibile faccia dell’inazione
Negli ultimi anni, soprattutto tra le persone più giovani, si va diffondendo un fenomeno psicologico: la cosiddetta ecoansia, o ansia climatica, ossia «la profonda sensazione di disagio e di paura che si prova al pensiero ricorrente di possibili disastri legati al riscaldamento globale e ai suoi effetti ambientali» (Treccani).
Come rilevato da un sondaggio su scala globale del G20, il 58% delle persone è estremamente preoccupato o molto preoccupato per lo stato dell’ambiente e del clima e ritiene che la natura sia già troppo danneggiata per continuare a soddisfare le esigenze umane nel lungo periodo, mentre il 73% delle persone ritiene che la Terra stia per raggiungere i tipping points (i “punti di non ritorno” oltre i quali si avvierà una serie di eventi climatici disastrosi) a causa dell’azione umana.
L’ansia climatica è ormai entrata a far parte della letteratura scientifica: il fenomeno si è talmente diffuso che è stato riconosciuto dall’American psychological association (APA) come uno stato di “paura persistente per una catastrofe ambientale” e sono stati creati organismi ad hoc quali l’Associazione Italiana Ansia da Cambiamento Climatico (AIACC).
L’ecoansia è una vera e propria testimonianza dell’impatto dello squilibrio nella relazione tra esseri umani e resto dell’ambiente sulla nostra epoca.
Secondo Giampaolo Perna, professore ordinario di Humanitas University e Responsabile del Centro di Medicina Personalizzata sui Disturbi d’Ansia e di Panico di Humanitas San Pio X, sembra che alcuni specifici fattori espongano maggiormente ai sintomi dell’ecoansia:

  • giovane età
  • ampia esposizione mediatica
  • impegno attivo nei confronti della crisi climatica
  • lavorare nell’ambito della sostenibilità ambientale.

I sintomi più comuni sono crisi d’ansia e nervosismo legati all’impatto dei propri comportamenti sull’ambiente, alla propria responsabilità nell’aiutare ad affrontare i problemi ambientali; prendere decisioni radicali come il non avere figli perché potrebbe non essere etico o sostenibile per le risorse disponibili del pianeta; difficoltà a vivere serenamente le situazioni sociali con la famiglia e gli amici, difficoltà a concentrarsi nel lavoro e/o nello studio, disturbi del sonno; soffrire di solastalgia, neologismo coniato dall’eco-filosofo linguista  Glenn Albrecht per descrivere la percezione ansiogena della mancanza di un futuro a causa dei disastri ambientali sempre più frequenti, a cui si associano emozioni di nostalgia, senso di perdita, ansia, disturbi del sonno, stress, dolore, depressione, pensieri suicidi e aggressività. Il rischio di provare nostalgia aumenta molto, per esempio, quando la propria casa o l’ambiente vicino vengono distrutti da eventi naturali improvvisi.
In particolare, nello specifico caso dei disastri naturali, le conseguenze sulla salute mentale sia delle persone coinvolte direttamente sia di chi è esposto alle notizie e soffre già di disturbi di ansia o depressione, possono perdurare e generare stress post-traumatico.
Questo stato mentale è dovuto in parte a una comunicazione mediatica che ha il fine principale di informare circa gli aspetti negativi e catastrofici del degrado ambientale, senza però stimolare l’attuazione di soluzioni concrete, toccabili con mano. Come abbiamo detto, una comunicazione sbagliata può trasmettere sconforto e generare paralisi anziché propositività e ricerca di soluzioni.
Inoltre, come sostiene l’attivista di Fridays for Future Letizia Molinari, l’ecoansia non può essere trattata come una nevrosi personale, ma è necessario riflettere sul significato e sulla natura collettiva di questo malessere, la cui soluzione non deve essere patologizzante, né può limitarsi alla psicoterapia o alla somministrazione di un farmaco. Anche membri di spicco quali Susan Clayton, ricercatrice in psicologia e membro dell’IPCC, «il focus sulla salute mentale non deve distogliere l’attenzione dalla risposta sociale necessaria per affrontare il cambiamento climatico».

 

Ecorabbia, il motore del cambiamento?
Ma non bisogna perdersi d’animo, perché questa ecoansia ha un potenziale: quello di diventare ecorabbia. Una rabbia nonviolenta: quella stessa rabbia positiva che muove centinaia di ragazzə nelle loro azioni di disobbedienza civile.
Secondo un’indagine australiana del 2021, l’ecorabbia tende ad avere un impatto meno negativo sulla salute mentale rispetto all’ecoansia, inoltre incoraggia un maggiore impegno nell’attivismo pro-clima, favorendo un atteggiamento più attento all’ecosostenibilità basato sulle cosiddette “emozioni morali”: l’ecorabbia costruttiva protegge dunque sia l’ambiente che la salute mentale personale. Di conseguenza, gli autori dell’indagine suggeriscono l’importanza di promuovere l’ecorabbia senza indurre altre eco-emozioni negative (come l’ecoansia), inoltre sarebbe opportuno sfruttare l’ecorabbia per guidare azioni a favore del clima a beneficio della salute umana e planetaria.
Secondo i risultati della ricerca, infatti, la frustrazione e la rabbia sono risposte adattive alla crisi climatica. Il senso di ingiustizia che deriva da quest’ultima tende a provocare rabbia di gruppo, motivando l’azione collettiva (e non individuale!).
Nell’indagine si legge che «coloro che sostengono l’azione per il clima, così come le campagne di comunicazione pubblica ed educazione, potrebbero avere più successo se si affidassero a messaggi basati sulla rabbia. Nel frattempo, i messaggi che fanno sentire le persone ansiose o depresse riguardo al cambiamento climatico potrebbero non avere successo o essere potenzialmente pericolosi per il benessere della comunità».
La rabbia è dunque una spinta forte all’azione. Anche secondo altri recenti studi, sembra che una volta intrapresa una serie di comportamenti a favore dell’ambiente, questi possano attenuare i sentimenti negativi associati all’ansia climatica, generando un circolo virtuoso.
Alcuni esempi di azione collettiva conseguente all’ecorabbia sono i Fridays for Future, Extinction RebellionUltima Generazione, che con le loro azioni di disobbedienza civile sottolineano l’ingiustizia climatica in maniera provocatoria e nonviolenta.
Sempre secondo la stessa indagine, sembra che presentare un’immagine positiva di un futuro alternativo motivi cambiamenti di stile di vita pro-ambientali, mentre l’inquadramento negativo, che presumibilmente evoca eco-emozioni negative, provoca disimpegno e può persino rafforzare lo scetticismo.

Dunque, come comunicare la crisi climatica in modo efficace?
Il concetto primario da tenere a mente è che è necessario saper tradurre questo tema complesso in formule semplici e comprensibili per tuttə; nel fare ciò, bisogna essere in grado di superare le resistenze che tale tema attiva.
Secondo Bruno Mazzara, professore ordinario di Psicologia sociale all’Università degli Studi di Roma La Sapienza, due sono le principali buone pratiche da seguire:

  1. In primo luogo, l’informazione deve invitare a modificare i comportamenti delle persone per trasmettergli un senso di efficacia dell’azione personale: per raggiungere questo obiettivo, bisogna precisare le relazioni di causa-effetto, evitare formulazioni astratte o catastrofiche e infine collegarsi all’esperienza della vita quotidiana;
  2. Secondariamente, bisogna rinforzare la connessione con le relazioni sociali e in particolare con la dimensione comunitaria. In quanto animali sociali, regoliamo i nostri comportamenti e assegniamo significati, giudizi e valori in riferimento agli altri. Perciò, se costruiamo un empowerment di comunità, ci ritroviamo in mano uno strumento potente per indirizzare in modo (pro)positivo gli atteggiamenti e le emozioni rispetto al tema. Nel comunicare la crisi climatica, dobbiamo quindi fare in modo che, a fronte di tale situazione negativa, riusciamo a orientare le percezioni, i vissuti e le emozioni delle persone, e così le loro scelte e i loro comportamenti, in una direzione positiva che valorizzi le potenzialità di cambiamento con la prospettiva del bene comune.

Rispetto al primo punto, possiamo dire che spesso è attraverso le immagini che si attivano le emozioni: queste hanno un ruolo importante nella costruzione delle rappresentazioni, sono più memorabili del testo scritto e hanno un effetto persuasivo più diretto.
Quali immagini evitare? Per esempio, sarebbe meglio evitare di utilizzare le immagini del “prima e dopo”, dove vengono visivamente evidenziati i danni ambientali (deforestazione, scioglimento dei ghiacciai, desertificazione, ecc.), perché trasmettono la sensazione di non essere in tempo per fermare la catastrofe.
Diversamente, potrebbe essere utile usare le immagini in grado di evocare propri vissuti emozionali e la dimensione sociale dell’impegno verso l’ambiente.
Inoltre, il linguaggio figurato è importantissimo: le parole possono essere in grado di attivare raffigurazioni mentali. Questo è vero in particolare per le metafore, che rendono più semplice e diretta la comprensione di cose che suonano come astratte e distanti. Il linguaggio figurato orienta dunque la ricerca di informazioni, le valutazioni e le azioni conseguenti in modo inconscio, visto che quasi sempre ci sfugge il significato metaforico delle espressioni usate.
Relativamente al secondo punto, quello della dimensione comunitaria, potremo davvero parlare di una modifica dei modelli di consumo e di sviluppo solo quando queste istanze non apparterranno più a una minoranza, ma diventeranno parte del sentire comune.
Per esempio, i messaggi veicolati dalle fonti istituzionali e dai mezzi di comunicazione, dovrebbero essere affiancati da momenti di confronto interpersonale e di scambio di informazioni ed esperienze direttamente tra le persone, per  creare e consolidare nuove norme sociali che vadano nella direzione di un cambio di atteggiamenti e di comportamenti. È proprio in questi contesti – ricchi di persone con orientamenti valoriali, culturali e politici anche molto diversi tra loro – che è possibile sviluppare una “negoziazione” che da un lato salvaguardi i propri valori e dall’altro permetta di andare nella direzione della sostenibilità.
Inoltre, nel parlare dei problemi e delle relative possibili soluzioni, sarebbe opportuno evitare l’uso di tabelle, dati e dettagli scientifici e tecnici, per dare spazio alle storie, in quanto il nostro modo di conoscere la realtà e il nostro coinvolgimento personale sono legati a modalità di pensiero di tipo narrativo.
La dimensione comunitaria è dunque la chiave di volta attraverso la quale coinvolgere realmente le persone: la trasformazione degli stili di vita e di consumo, vedendo una necessaria trasformazione del modo di concepire il nostro rapporto con le risorse naturali, non può che partire proprio dalle esperienze locali di confronto.
Secondo l’attivista per il clima Greta Thunberg, per spingere le persone a intraprendere un’efficace azione climatica e abbassare le barriere mentali che impediscono loro di impegnarsi, dovremmo considerare le «cinque D» dei meccanismi di difesa psicologica: Distacco, Destino, Dissonanza, Diniego e iDentità.

  1. Il Distacco psicologico è quel meccanismo per cui tendiamo a percepire la crisi climatica come una cosa astratta, lenta e distante in termini di spazio e di tempo e ciò riduce la nostra percezione del rischio.
  2. Il Destino consiste nel fatto che consideriamo la crisi climatica come una catastrofe incombente che provocherà grandi perdite e sacrifici: è un immaginario che provoca paura e senso di colpa che, come abbiamo detto, si traducono facilmente in inerzia.
  3. La Dissonanza cognitiva tra quello che facciamo e quello che sappiamo ci spinge a giustificarci anziché modificare i nostri comportamenti.
  4. Il Diniego è il modo in cui ogni giorno reprimiamo la consapevolezza sulla crisi climatica per continuare a vivere come se non ne fossimo al corrente.
  5. Infine, la barriera dell’iDentità: le politiche climatiche possono minacciare il senso di sé, la libertà e i propri valori, in quanto spingono a cambiare lo stile di vita, a un maggior ruolo del governo e a un aumento delle tasse.

Queste cinque D spiegano perché le persone non stiano agendo nonostante conoscano la verità: ecco perché è così difficile per noi passare dall’allarme climatico all’azione climatica. Per fortuna, a queste cinque D corrispondono «cinque S», cinque chiavi per uno stile di comunicazione psicologicamente più adatto ed efficace: l’azione climatica deve essere più Sociale, più Semplice, più Solidale, e corredata da Storie e Segnali.

  1. È fondamentale rendere la crisi climatica più Sociale, personale e urgente, condivisa con amici e comunità, come suggerito da Bruno Mazzara.
  2. Possiamo rendere più Semplice compiere scelte quotidiane sostenibili usando tecniche di “spostamento graduale”. Ad esempio, rendendo un pasto vegetale il menù del giorno della mensa scolastica.
  3. Possiamo applicare all’intervento climatico logiche di Solidarietà, essendo esso un’occasione per migliorare la nostra salute e benessere.
  4. Possiamo tratteggiare Storie migliori e più vivide sulla direzione da prendere.
  5. Infine, per mantenere alta la motivazione, abbiamo bisogno di feedback, di Segnali che ci dicano se stiamo compiendo effettivi progressi sociali in termini di rinnovabili, alimentazione e lavori green, e non solo di dati planetari.

 

Per un mondo migliore: dall’Antropocene al Simbiocene
Proseguendo nel nostro viaggio in questo glossario, non possiamo che ampliare lo sguardo alla nostra epoca geologica attuale.
La storia geologica della Terra è divisa in eoni, che a loro volta si suddividono in ere, periodi ed epoche. L’epoca in cui viviamo prende il nome di Olocene ed è iniziata alla fine dell’ultima fase glaciale della Terra, circa 11.500 anni fa. È nell’Olocene che si è svolto l’intero sviluppo storico della civiltà umana, dalla scoperta dell’agricoltura, 10.000 anni fa.
Negli anni Ottanta, il biologo Eugene Stroemer sostenne che l’Olocene fosse ormai conclusa e si stesse entrando in una nuova epoca geologica, l’Antropocene, il cui inizio venne stabilito a metà Novecento, quando nelle rocce venne per la prima volta individuata la presenza di radionuclidi che provenivano dalla detonazione della prima bomba atomica della storia.
Nell’Antropocene, dal greco ànthrōpos (che significa “uomo”), è l’essere umano – anche se forse sarebbe più corretto mantenere la parola uomo, date le evidenti disparità di genere – a rimodellare la Terra, modificandone i sistemi e influendo in modo decisivo sugli equilibri naturali, mettendoli a rischio.
L’Antropocene, insomma, è l’epoca geologica della dominazione umana sul resto del pianeta: l’uomo è diventato una forza geologica in grado di modificare i sistemi su cui poggia il pianeta. Il clima è sempre cambiato nel corso della storia della Terra; tuttavia, nell’Antropocene, per la prima volta è l’uomo a cambiare il clima.
Se continueremo a percorrere questa strada, la traccia che imprimeremo nella storia sarà imperdonabile: radionuclidi, estinzioni di massa, ceneri volanti, l’uranio 235.
Da qui la necessità di ripensare il nostro modo di abitare il pianeta: se l’Antropocene è sempre più associata a emozioni negative come l’ecoansia, la solastalgia, il pessimismo sul futuro e un sentimento di generale disperazione, allora è chiaro che come esseri umani abbiamo delle nuove responsabilità etiche, politiche e sociali e dobbiamo cambiare qualcosa nel nostro modo di abitare il mondo.
Nel 2015, oltre alla solastalgia, Glenn Albrecht ha coniato anche la nozione di Simbiocene. Questo termine deriva dal concetto di simbiosi, per sottolineare l’interconnessione tra tutti gli esseri viventi come base per costruire un nuovo modo di vivere sulla terra fondato sul mutualismo e sulle relazioni tra umani e non-umani.
Questa visione del mondo resiste alle visioni della natura come intrinsecamente ostile, della guerra competitiva di tutti contro tutti e di un sistema che mette al centro il capitale, in quanto il Simbiocene rappresenta la speranza di riuscire a ripensare il nostro modo di vivere col resto degli esseri viventi, per costruire e nutrire una relazione positiva e simbiotica tra esseri umani e resto della natura.
In conclusione, comunicare la crisi climatica senza insinuare sentimenti di tristezza e sconforto non è un’operazione semplice.
Il cammino per un cambiamento sostanziale è ancora lungo, tuttavia abbiamo segnalato alcune buone pratiche per costruire un futuro migliore: potremmo cercare di provare sulla nostra pelle e trasmettere anche alle altre persone l’ecorabbia positiva; dopodiché, dovremmo lavorare insieme, come una vera comunità, per realizzare un cambiamento positivo che ci indirizzi verso un modo di vivere più simbiotico, di comunità e dialogo.
È necessario cambiare la nostra direzione verso un futuro che riconosca e restituisca importanza a tutti gli esseri viventi e che ripensi il ruolo dell’essere umano nel mondo, per ridurre in modo significativo i nostri impatti negativi sul clima e sugli altri esseri viventi.
Se seguiamo queste buone pratiche in senso collettivo e comunitario, abbiamo qualche speranza di portare un mutamento positivo nella nostra società.

 

Martina Marcuccetti

 
BIBLIOGRAFIA
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SITOGRAFIA
https://www.treccani.it/magazine/atlante/societa/Cosa_ansia_climatica_cosa_comporta.html
https://www.treccani.it/vocabolario/neo-ecoansia_%28Neologismi%29/https://aiacc.it/

PODCASTS
Gheno, V., Il potere delle parole giuste, TEDxMontebelluna, TEDx Talks, 27 giugno 2018. https://www.youtube.com/watch?v=BTZq2q_Cicg