Il Nepal

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Geografia e clima in Nepal

Il Nepal è uno stato dell’Asia meridionale situato ai piedi della sezione centrale dell’Himalaya, fra l’India e la Cina.

Il clima del Nepal è di tipo tropicale-monsonico, il che consente l’alternarsi di due stagioni principali: la stagione delle piogge (da giugno a fine settembre) e la stagione secca (il resto dell’anno). Nonostante le sue ridotte dimensioni, presenta una grande varietà di ambienti naturali: per questo motivo, il clima nepalese è molto variegato, con temperature che variano da quelle molto calde delle pianure a quelle estremamente rigide delle montagne, dando vita a microclimi diversi tra loro. È composto da tre aree principali:

  1. la regione pianeggiante meridionale, il Terai, dove il clima è subtropicale, dunque caldo-umido durante tutto l’anno;
  2. la regione collinare centrale, il Pahad, dove il clima è temperato, dato che la temperatura è mitigata dall’altitudine;
  3. la regione montuosa settentrionale, l’Himal, che comprende le vette della catena dell’Himalaya e presenta un clima alpino, con inverni rigidi e temperature che decrescono con l’altezza, mantenendosi quasi costantemente sotto gli 0° C.

 

Crisi climatica in Nepal

A livello globale, le zone montane sono le più colpite dalla crisi climatica; infatti, queste vengono definite “hot-spot climatici”, in quanto risentono di un forte riscaldamento che danneggia i microclimi e la biodiversità. In Nepal, la zona montana si trova nella regione dell’Himal, dove la crisi climatica mina la stabilità del ciclo idrologico montano, il quale produce uno stress idrico delle colture e determina una diminuzione dei raccolti, che è la fonte principale di approvvigionamento per molte famiglie nepalesi.

Inoltre, il Nepal è una delle nazioni più gravemente colpite dalla crisi climatica: delle sue 75 province, 29 sono estremamente a rischio in caso di catastrofi naturali, 22 sono minacciate da gravi ondate di siccità e 21 possono subire inondazioni devastanti.

Inoltre, secondo le Nazioni Unite, il Nepal è al 4° posto nel mondo in termini di vulnerabilità alla crisi climatica, trentesimo in termini di vulnerabilità ai rischi di inondazioni legati alla crisi climatica e undicesimo per vulnerabilità ai terremoti.

Ayshanie Medagangoda-Labé, rappresentante del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) in Nepal, sostiene che «Il Nepal è il punto zero per gli impatti del cambiamento climatico. Essendo un paese con uno degli ecosistemi più fragili – l’Himalaya – e un’economia che dipende fortemente da condizioni climatiche favorevoli, il Nepal è probabilmente uno dei più esposti».

Dati alla mano, l’andamento della temperatura è risultato in aumento al ritmo di 0,0254 °C all’anno (°C/a) tra il 1990 e il 2020 nella regione montuosa dell’Himal, di 0,0921 °C/a nella regione collinare del Pahad e di 0,0042 °C/a nella regione del Terai.

L’aumento della temperatura media e il conseguente scioglimento dei ghiacciai nepalesi – alcuni dei quali hanno più di 2000 anni – hanno causato la comparsa di laghi glaciali: più questi crescono, maggiore è la loro probabilità di provocare smottamenti e inondazioni delle vallate presenti a bassa quota.

Nel 2018 nel rapporto Hindu Kush Himalaya Assessment gli scienziati hanno avvertito che anche se gli obiettivi più ambiziosi del mondo sulla crisi climatica verranno conseguiti, è sicuro che almeno un terzo dei ghiacciai himalayani si scioglierà entro la fine del secolo. Se invece il riscaldamento globale e le emissioni di gas serra continueranno ad aumentare ai tassi attuali, con molta probabilità la regione perderà due terzi dei suoi ghiacciai entro il 2100.

Inoltre, durante la stagione umida le anomalie climatiche come i monsoni e l’aumento delle precipitazioni sono sempre più frequenti e intense e provocano frane e inondazioni (ciò è stato particolarmente evidente negli anni 2020 e 2021), mentre durante la stagione secca si verificano grandi carenze d’acqua potabile e conseguenti siccità e incendi che possono rimanere accesi anche per mesi. Più precisamente, l’andamento delle precipitazioni nella regione montuosa è in diminuzione di -13,126 mm all’anno (mm/a), di -9,3998 mm/a nella regione collinare e di -5,0247 mm/a nella regione del Terai.

Un’altra anomalia climatica che tende a ripetersi nel territorio nepalese è quella dei terremoti, il più violento dei quali (magnitudo 7,8 della scala Richter) si è verificato nell’aprile del 2015, causando la morte di più di 8000 persone. Tale scossa ha a sua volta provocato una valanga sul monte Everest che ha causato altri morti; a maggio, una seconda scossa ha causato la morte di altre 200 persone.

Oltre all’enorme perdita di vite umane, questo evento ha provocato gravi danni agli edifici,  ai siti storico-artistici e alle infrastrutture; tra queste, numerose scuole – circa 8.308 – hanno subìto danni severi.

È proprio a seguito di questo disastro ambientale che El Comedor Giordano Liva ha avviato un progetto per ricostruire la Uttargaya Public English Secondary School nel distretto di Nuwakot.

I terremoti sono un fenomeno ricorrente in Nepal: l’ultimo forte terremoto (magnitudo 5,9 della scala Richter) risale solamente al 3 novembre 2023 e ha provocato 157 morti accertate.

Per quanto riguarda il sistema produttivo nepalese, diversi studi hanno accertato gli impatti negativi della crisi climatica sui mezzi di sussistenza agricoli e agropastorali, in quanto il cambiamento nei modelli di precipitazione ha influenzato negativamente la produzione agricola nepalese. In particolare, la regione dell’Himalaya centrale ha registrato un forte calo nella produzione di colture invernali, dalle quali due terzi della popolazione trae sostentamento.

La regione collinare del Pahad, seguita da quella montana dell’Himal, rimane la più colpita: la crisi climatica ha avuto un forte impatto negativo sulle colture di base, come l’aumento della presenza di parassiti e malattie nel mais, nelle risaie, nel grano e nel miglio, che si trovano perlopiù proprio nel Pahad; diversamente, le opzioni di sostentamento sono molto limitate nell’Himal. Gli eventi indotti dal clima, come inondazioni, frane e grandinate, hanno colpito soprattutto il Terai e il Pahad rispetto alla regione montana.

 

La questione dell’acqua

In questo contesto, una questione politico-ambientale piuttosto rilevante è quella dell’accesso all’acqua. Nepal e India condividono una delle più grandi regioni geo-idrologiche: il bacino del Gange-Brahmaputra; il Nepal copre gran parte del bacino idrografico superiore del sottobacino del fiume Gange. I principali fiumi del sottobacino come Mahakali, Karnali, Sapt Gandaki e Sapt Kosi provengono dalla regione trans-himalayana, attraversano il Nepal e scorrono verso sud per unirsi al Gange in India, e quindi sono di natura internazionale o transfrontaliera.

Queste caratteristiche idrologiche legano India e Nepal in un rapporto di interdipendenza geografica nella gestione delle risorse idriche. Sebbene il potenziale cooperativo sia considerevole, la cooperazione tra questi due paesi sulle questioni relative allo sviluppo delle risorse idriche non è stata facile ed è stata fortemente influenzata da una serie di fattori che ne hanno peggiorato la qualità: da fattori geopolitici, dall’enfasi sui reciproci torti storici, dalla sindrome del grande-piccolo paese e dall’incapacità di comprendere le sensibilità reciproche.

Nel tempo, il frutto di questa “cooperazione” ha portato i due paesi a stipulare una serie di trattati e accordi sull’uso delle risorse idriche: l’accordo di Sarada (1920), l’accordo di Kosi (1954), l’accordo di Gandak (1959) e il trattato di Mahakali (1996).

Tali accordi sono tutti sbilanciati a favore dell’India, che esercita una vera e propria idroegemonia; in questi accordi, i nepalesi hanno percepito che la gestione dello sviluppo delle proprie risorse idriche è stata unilaterale e non il frutto di una partnership. Ciò ha contribuito a creare molta sfiducia, così come l’apparente mancanza di trasparenza. I rapporti con l’India in materia di acqua sono diventati sempre più una questione delicata per i nepalesi: ciò ha dato luogo a una forte politicizzazione sul tema e alla costruzione di un sentimento anti-indiano, ed è per tale ragione che l’India non sta applicando il trattato di Mahakali, il quale, a quasi 30 anni dalla ratifica, non è ancora stato attuato.

Tuttavia, esiste un enorme potenziale di cooperazione tra India e Nepal nell’utilizzo delle risorse idriche. L’adozione dei principi internazionali consueti di condivisione dell’acqua transfrontaliera può essere utile per ottenere vantaggi reciproci attraverso le risorse idriche. L’India, essendo un importante attore regionale e avendo un’economia più grande e influente, dovrebbe farsi avanti per ottenere la fiducia del Nepal per un utilizzo corretto e onesto delle risorse idriche a vantaggio di entrambe le nazioni.

Infine, entrambi i paesi dovrebbero garantire che qualsiasi passo verso la condivisione dell’acqua non ignori l’impatto cumulativo sulla pace, l’ecologia e l’economia della regione.

Nel nostro progetto di ricostruzione della scuola di Uttargaya abbiamo infatti previsto anche l’installazione di un impianto di depurazione dell’acqua e la modernizzazione dei servizi igienici della scuola, in modo da fornire un adeguato accesso all’acqua pulita a tutti i bambini e le bambine presenti nella scuola.

Questo limitato accesso alle risorse idriche costituisce un ostacolo aggiuntivo alla situazione generata dalla crisi climatica, in quanto mette ulteriormente in crisi il territorio, il sostentamento e l’economia del Nepal.

 

Migrazioni climatiche

Il National Disaster Report del 2017 rileva che oltre l’80% della popolazione totale del Nepal è a rischio di pericoli naturali come inondazioni, frane, tempeste di vento, grandinate, incendi, alluvioni glaciali e terremoti. Secondo il report, un fenomeno da non sottovalutare è quello delle frane, in quanto provocano una perdita di risorse idriche: i letti dei fiumi diventano asciutti e i campi brulli e polverosi e ciò è determinante nel costringere gli abitanti di alcuni villaggi alla migrazione interna.

Bisogna inoltre considerare che circa il 70% della popolazione dipende dall’agricoltura, responsabile del 34% del PIL nazionale: per i prossimi decenni si prevede che l’aumento delle temperature e l’irregolarità dei monsoni stagionali spazzeranno via le colture più importanti del paese, incluso il riso, i cui raccolti nei prossimi 80 anni caleranno del 4,2%.

Così, agli abitanti non resta che abbandonare il loro villaggio nel tentativo di costruirsi una vita più dignitosa altrove.

Dagli studi più recenti emerge come la migrazione sia una risposta umana comune per gestire i rischi ambientali: «La migrazione per lavoro è una strategia di diversificazione dei mezzi di sussistenza. Le rimesse dei lavoratori migranti integrano il reddito della famiglia beneficiaria proveniente da altre fonti», sostiene lo studio di Banerjee.

Perciò, non è un caso che il Cancun Adaptation Framework del 2010 abbia riconosciuto la migrazione come una forma di adattamento alla crisi eco-climatica.

In questo quadro, due sono le tipologie di migrazioni legate alle condizioni climatiche, secondo il Think Tank Center for Social Change di Kathmandu: da un lato, lo sfollamento in seguito a fenomeni estremi come le alluvioni; dall’altro, il trasferimento obbligato per la mancanza d’acqua, i raccolti scarsi e l’insicurezza alimentare.

Nelle aree particolarmente esposte a disastri climatici, fino al 75% degli uomini con un’età compresa tra i 19 e i 44 anni migra, rafforzando il fenomeno delle rimesse quale strumento principe che porta al calo della povertà; d’altro canto, donne e anziani tendono a non migrare e sono costretti a concentrarsi sulle attività agricole, andando spesso incontro alle conseguenze negative dovute alla crisi climatica.

Questo avviene soprattutto nel Nepal occidentale, dove la migrazione per lavoro è comune tra i giovani uomini, con implicazioni per la partecipazione familiare e comunitaria per chi rimane nella terra di origine, che sono prevalentemente donne.

Secondo il Nepal Living Standards Survey del 2010-11, c’era almeno un membro della famiglia assente nel 53% delle famiglie nepalesi e le rimesse rappresentavano il 28% del PIL del Nepal nel 2018, che tendevano ad aumentare all’indomani dei disastri.

Un importante caso di migrazione di massa è quello del villaggio di Samzong: dopo più di mille anni, il villaggio è praticamente morto e i suoi abitanti si sono spostati in una località più in basso, Namashung, nella speranza di costruirsi un futuro migliore.

Allo stesso modo, nell’Upper Mustang, una regione trans-himalayana che riceve meno di 200 mm di pioggia all’anno, le famiglie del villaggio di Dhey sono state trasferite a Thangchung nel 2009 a causa della carenza di acqua.

Questi sono casi di migrazione interna, ma si verificano anche molte migrazioni temporanee esterne per lavoro, soprattutto verso l’India: una migrazione, questa, generalmente perseguita da nepalesi relativamente poveri che non possono permettersi il costo della migrazione verso altre località internazionali, oltre al fatto che in India sono già presenti importanti reti sociali nepalesi e per recarvisi non vi sono requisiti di documentazione.

 

Migrazioni climatiche: un fenomeno di genere?

Una conseguenza evidente di queste tendenze migratorie è che poiché sempre più uomini cercano opportunità di lavoro lontano da casa, le donne si ritrovano ad acquisire nuove capacità per gestire nuove sfide, soprattutto i rischi derivanti dal cambiamento climatico. In poche parole, nel contesto nepalese le donne sono i soggetti maggiormente responsabili della gestione dei rischi dei disastri e delle risorse per le loro famiglie.

Per questa ragione, sono stati creati diversi programmi di intervento e di divulgazione destinati alle donne per aumentare le loro capacità di gestione dei rischi derivanti da crisi climatiche, spesso con buoni risultati, tra cui il rafforzamento della leadership delle donne locali. Ad esempio, molte donne beneficiarie hanno incoraggiato le persone nelle loro reti sociali a considerare risparmi precauzionali e prepararsi per le inondazioni.

Di conseguenza, in assenza degli uomini le donne si comportano come capifamiglia e svolgono ruoli di cui gli uomini sono tradizionalmente responsabili.

Tuttavia, vi sono delle notevoli criticità: se da un lato l’emigrazione maschile può aumentare il potere decisionale delle donne migliorando il loro accesso alle risorse, dall’altro può anche aumentare la partecipazione delle stesse al lavoro agricolo non retribuito o ad altri tipi di attività domestiche e ridurre il loro tempo per le attività del tempo libero.

Oltre al fattore del genere e a quello climatico si interseca spesso quello della classe; come abbiamo visto, non è raro che le migrazioni portino con sé una serie di concause. Risulta perciò imprescindibile osservare il fenomeno attraverso una chiave interpretativa intersezionale. Ciò che emerge è che a partire sono spesso giovani uomini poveri che hanno la speranza di riuscire a mandare delle rimesse in Nepal; le donne, invece, vengono lasciate nella terra di origine con grandi responsabilità: occuparsi della famiglia e gestire le colture in declino, con sempre meno tempo da dedicare a se stesse. In sostanza, è come se la crisi eco-climatica esacerbasse le condizioni di partenza delle categorie sociali svantaggiate.

A conferma di ciò, da un recente studio è emerso che le giovani donne provenienti da famiglie nucleari, di casta bassa, povere e con legami sociali e di parentela limitati sono in posizioni svantaggiate e hanno un accesso limitato agli spazi di partecipazione: va da sé che le opportunità delle donne di beneficiare delle risorse della comunità rimangono dipendenti dalle loro caste – e dunque anche dalla classe – e reti di parentela.

 

La percezione del fenomeno da parte delle persone nepalesi

Dopo questo inquadramento sulla situazione climatica e migratoria nepalese, può essere interessante provare a spostare il focus non più sul dato oggettivo, ma sulla percezione della popolazione nepalese del fenomeno, per comprendere in che modo la crisi climatica sta entrando nella quotidianità delle persone e in che misura queste ultime la percepiscono.

In un recente studio, è emerso che le percezioni locali dei cambiamenti della temperatura e delle precipitazioni sono molto coerenti con le serie temporali delle misurazioni climatiche meteorologiche. Quasi tutti i residenti locali concordano sul fatto che i monsoni sono stati colpiti da un «cambiamento fenomenale della stagione delle piogge, che inizia tardi e termina presto», rendendo il clima atroce per le colture agricole e il bestiame.

La popolazione locale, infatti, percepisce anche le variazioni minime (e dunque non significative in termini statistici) della temperatura e delle precipitazioni, e delle conseguenze che queste hanno su altri fattori quali flora e fauna.

Nello studio in questione, per confrontare i cambiamenti osservati nelle variabili meteorologiche con la percezione locale, a tutti i partecipanti sono state poste una serie di domande quali: «Avete sperimentato cambiamenti nella temperatura?». A questa domanda hanno risposto tutti positivamente, specificando che la temperatura sta aumentando.

Inoltre, la maggior parte delle persone intervistate della regione collinare ha affermato che alcune faune stanno scomparendo, mentre è apparso il contrario nelle risposte degli intervistati della regione montana, i quali hanno dichiarato che alcune popolazioni di uccelli sono aumentate invadendo le colture agricole. Perciò, la popolazione locale ha sperimentato la crisi climatica e le sue manifestazioni fisiche, cioè i cambiamenti di temperatura e le precipitazioni e le loro conseguenze. Gli stessi abitanti del luogo hanno affermato che i cambiamenti nell’habitat e la migrazione delle specie di uccelli verso le altitudini più elevate sono causati dall’aumento della temperatura nelle regioni.

Da uno studio analogo emerge che per gli agricoltori nepalesi l’impatto maggiore è stato riscontrato nella produzione di colture: infatti, si è verificata una diminuzione della resa delle colture per il 39,4% degli agricoltori in montagna, per il 41,4% in collina e per il 46,5% nella regione del Terai e un aumento di insetti e roditori nelle colture, con conseguente vulnerabilità dell’agricoltura di sussistenza e insicurezza alimentare.

Di conseguenza, le persone tendono ad abbandonare l’agricoltura per spostarsi verso settori più sicuri in quanto meno colpiti dalla crisi climatica, come la manodopera edile, i servizi di migrazione del lavoro, le imprese e il settore turistico. Si è progressivamente assistito a un abbandono dei terreni agricoli su larga scala che ha aumentato ulteriormente l’insicurezza alimentare nella regione. Infatti, gli agricoltori hanno riferito che quasi il 24,24% della superficie totale dei terreni agricoli nella regione montana è abbandonata, il 21,8% nella regione collinare e il 3,9% nella regione del Terai.

Anche i problemi legati all’acqua in agricoltura sono associati alla crisi climatica, dal momento che l’aumento della temperatura ha danneggiato le fonti di irrigazione: nelle regioni montane e collinari il volume di acqua sorgiva è diminuito, e ciò ha avuto un impatto diretto sulle attività di coltivazione e sui mezzi di sussistenza. La pratica dell’agricoltura a pioggia è la più comune in montagna (69%) e in collina (44%), anche se gli impianti di irrigazione permanenti sono disponibili in misura limitata. A causa della diminuzione della quantità d’acqua, gli agricoltori sono stati costretti a cercare opzioni di sostentamento alternative. Secondo gli agricoltori, circa il 40% della produzione agricola è diminuita a causa della diminuzione delle precipitazioni e delle nevicate, della variabilità stagionale e della siccità invernale. Per esempio, più del 50% degli abitanti di Arghakhanchi ha almeno un familiare che ha lasciato la propria casa per questi motivi. 

Non c’è alcun dubbio: gli eventi climatici estremi hanno un impatto sempre più importante sulle colture nepalesi e costringeranno sempre più persone a migrare.

 

I racconti di chi l’ha vissuto

È il caso della famiglia della giovane Ashmita Thapa, il cui marito è dovuto partire per l’estero a causa della scarsità dei raccolti. «Qui, ormai, la produzione è sempre più scarsa a causa dei cambiamenti climatici. Non piove più come prima, le infestazioni parassitarie sono in aumento e i venti sono spesso violenti. Abbiamo la metà del mais che producevamo un tempo», spiega Ashmita. Purtroppo, suo marito non ha trovato fortuna all’estero.

Anche la storia di Laxmi Sunar viaggia su un binario simile: «Negli ultimi cinque anni siamo stati colpiti fortemente dal cambiamento climatico. La pioggia non è più una certezza. E molte coltivazioni sono state danneggiate dalla grandine». Anche suo marito si è indebitato per migrare all’estero in cerca di un lavoro. Laxmi è diventata la sola ad occuparsi della fattoria, del bestiame e della figlia. «Ho vissuto periodi difficili prima e dopo il parto. Ho sofferto per la mancanza di cibo e di cure adeguate. Mio marito non guadagna molto all’estero. E se non paghiamo gli interessi in tempo, il creditore ci impone di pagare il doppio». 

Sia Laxmi che Ashmita sono state coinvolte in un progetto della FAO che ha il fine di insegnare a praticare un’agricoltura e un allevamento sostenibili dal punto di vista climatico. La loro speranza è che possano continuare a vivere nella loro terra e non siano costrette ad andare all’estero.

 

Scenario attuale

Storie come quelle di Ashmita Thapa e Laxmi Sunar sono all’ordine del giorno in Nepal. Infatti, in uno studio dell’OIM del 2016 sul nesso tra crisi climatica, degrado ambientale e migrazione nell’Asia meridionale si rileva che varie famiglie impegnate nell’agricoltura hanno temporaneamente inviato i membri della famiglia all’estero per compensare la perdita di mezzi di sussistenza che si è verificata a causa della crisi climatica.

Nel frattempo, il governo ha sviluppato una politica nazionale e un Piano d’azione strategico per la riduzione e la gestione del rischio di catastrofi 2018-2030. Inoltre, negli ultimi anni, i piani di adattamento alla crisi climatica sono stati al centro dell’attenzione del governo del Nepal.

Per esempio, introducendo varietà di colture resistenti allo stress climatico, i raccolti di riso, grano e mais sono aumentati rispettivamente del 54%, 19% e 91%.

Anche il Programma d’Azione Nazionale per l’Adattamento ai Cambiamenti Climatici (NAPA) e il Quadro Nazionale sui Piani d’Azione Locali per l’Adattamento (LAPA) hanno elaborato alcune strategie per mitigare l’impatto della crisi climatica sui mezzi di sussistenza delle persone.

Tuttavia, queste strategie dovrebbero essere continuamente aggiornate e diversificate per regione; inoltre, è importante che queste si concentrino sullo specifico scenario climatico regionale, sulle pratiche agricole e sulle conoscenze delle popolazioni residenti, perché queste facilitano la mitigazione dell’impatto dei cambiamenti climatici nelle tre diverse regioni del Nepal. Le conoscenze ed esperienze locali degli agricoltori possono contribuire in modo proficuo ad aggiornare le strategie di adattamento esistenti per mitigare l’impatto della crisi climatica.

Un’altra criticità è che la politica non affronta esplicitamente i temi della migrazione, dello sfollamento e del trasferimento conseguente alla crisi climatica. Negli ultimi anni, il Ministero delle Foreste e dell’Ambiente nepalese si è concentrato sulle strategie di adattamento alla crisi climatica, ma ad oggi nel governo non c’è ancora stato un lavoro trasversale significativo sul nesso tra crisi climatica e migrazione.

Timide riflessioni sono state condotte a livello internazionale, ma è difficile tutelare i diritti dei migranti climatici se non c’è una figura giuridica che li ricomprenda e garantisca loro protezione.

 

Martina Marcuccetti

 

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