La crisi climatica, oggi

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La crisi climatica, questa estate


Nella seconda settimana di Agosto, alle Hawaii imperversano incendi su vasta scala e l’antica capitale Lahania brucia. Il quotidiano britannico The Guardian apre il suo reportage con un articolo che sostiene che gli incendi hanno come concausa la crisi climatica. Da giorni sulle Hawaii tira un forte vento, causato dall’uragano Dora, attivo a circa cinquecento chilometri di distanza da Maui. L’innalzamento delle temperature degli oceani, causato dalla crisi climatica, intensifica la velocità dei venti. Allo stesso tempo, le temperature dei poli terrestri, che stanno cambiando, hanno un impatto sul pattern dei venti, cioè sulla direzione e sulla intensità delle correnti. Questo, a sua volta, causa un’intensificazione della violenza degli uragani e rende più lento il loro percorso. Quindi, è più probabile che un uragano si fermi vicino a una costa per più tempo; costa che, magari, è stata erosa e resa più fragile dall’innalzamento dell’oceano. Il forte vento ha rappresentato una causa importante della rapida diffusione delle fiamme alle Hawaii. 


Altri incendi hanno fatto notizia quest’estate: quelli in Grecia, in Portogallo e anche in Italia, dove per qualche giorno le linee del fuoco attorno a Palermo e Catania hanno occupato le prime pagine dei giornali, anche per i problemi causati al traffico aereo e le interruzioni ai servizi di distribuzione di acqua corrente e elettricità. Anche in questo caso, la crisi climatica è una concausa di questi eventi estremi. Non solo le alte temperature aumentano il rischio di incendio: incrementano anche la secchezza della vegetazione, che a sua volta favorisce il rapido allargamento dei fuochi. Questo è stato provato nel caso dei fuochi in Europa, così come nel caso de 

le Hawaii. Per introdurre un ulteriore aspetto della complicata questione degli effetti del riscaldamento globale, notiamo che, riporta Mother Jones, le grasslands secche delle Hawaii sono composte da specie aliene, introdotte all’inizio del Diciannovesimo secolo dai coloni europei allo scopo di convertire l’uso del terreno che avevano sottratto alle popolazioni locali ad agricoltura e allevamento su larga scala e poi lasciate incolte e incustodite dopo la chiusura delle piantagioni. Torneremo sugli aspetti coloniali della crisi climatica più avanti in questo articolo.


    Queste notizie ci dicono due cose importanti sugli effetti del cambiamento climatico. La prima è che, sebbene sia complicato stabilire univocamente le cause di un fenomeno complesso come gli incendi su larga scala, è ormai sicuro che il riscaldamento dell’atmosfera rende più probabili e quindi più frequenti gli eventi di questo tipo, oltre ad amplificare l’intensità. La difficoltà di provare come la crisi climatica sia, in modo diretto, la causa di questi disastri è un argomento spesso addotto da chi rifiuta di percepirla come un pericolo reale. È vero che uragani e incendi ci sono sempre stati. Tuttavia, il fatto che, per esempio, un incendio sia appiccato da mano umana non significa che la secchezza della vegetazione e l’alta temperatura non siano importanti fattori di propagazione. Anche se gli uragani ci sono sempre stati, ciò non toglie che sono e saranno sempre più frequenti e che le loro conseguenze – come i venti che propagano gli incendi – andranno a colpire territori più predisposti a bruciare.

Per offrire un altro esempio di questo tipo, in Italia è stato vivo il dibattito su quale ruolo la crisi climatica abbia giocato nell’alluvione di maggio in Emilia Romagna. Scienziati e scienziate hanno sottolineato come sia difficile stabilire un rapporto diretto fra la crisi climatica e quello che è successo con la certezza richiesta al metodo scientifico. Ricondurre una singola perturbazione alla crisi climatica è un’operazione complicata, dato che la meteorologia si basa su concause e probabilità, più che su cause univoche e certezze. Tuttavia, lə stessə ricercatorə asseriscono che il legame fra eventi estremi e cambiamento climatico è ormai ampiamente dimostrato dalla scienza e dovrebbe essere tenuto di conto nel pianificare interventi che vadano a ridurre la fragilità del suolo, perché è certo che fenomeni di questo tipo saranno sempre più frequenti. Silvio Gualdi, senior scientist al Centro euromediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc), in un’intervista a cura del Corriere della Sera, avverte che un’atmosfera più calda contiene più vapore acqueo, che viene poi rilasciato durante le piogge. La siccità prolungata rende il suolo più secco, non solo a causa della minore frequenza delle piogge, ma anche perché l’aria “risucchia” l’acqua presente nel terreno in quantità più ampie quando è più calda, come spiega Kate Marvel in The Climate Book. Questo suolo secco, quando poi la pioggia arriva in modo esplosivo, è meno capace di assorbire acqua. Inoltre, lo scioglimento dei ghiacciai può aumentare la portata dei fiumi, favorendone l’esondazione. La capacità di assorbimento è ridotta anche dallo sfruttamento umano del territorio, ad esempio attraverso la cementificazione che toglie concretamente superficie assorbente ai territori. Insomma, quale che sia il ruolo giocato dal riscaldamento climatico nei fatti di maggio, c’è consenso fra chi si occupa di scienza sul fatto che il ciclo siccità/alluvioni sarà sempre più presente in un futuro più caldo e che occuparsi del consumo del suolo e del dissesto idrogeologico diventa per questo motivo ancora più importante. 


Secondo Legambiente, gli eventi estremi dal 2010 in Italia sono stati 1687. Fra gennaio e maggio 2022 ne sono stati registrati 52; nello stesso periodo del 2023 erano 122. L’evento più rappresentato è proprio l’alluvione, con 16 eventi nel primo semestre del 2022 e 30 nel primo semestre del 2023.  


Il secondo aspetto che questi esempi ci permettono di rilevare è che gli effetti della crisi climatica sono già percepibili in tutto il globo. Non si tratta più di parlare di effetti a breve termine, ma di quelli che già esistono nel mondo, oggi.


Allo scopo di dimostrare la diversità degli effetti del riscaldamento globale, prendiamo un altro esempio: le zoonosi, ovvero le malattie che passano da animali a umani (come, probabilmente, è stato il COVID 19). Ancora il Guardian nell’aprile del 2023 riportava un incremento di TBE, tick-borne encephalitis, cioè encefalite sviluppatasi a seguito di un morso di zecca, nel Regno Unito. In un altro articolo pubblicato nello stesso giorno, il giornalista scientifico Stephen Buranyi avverte di come, dato che le zecche proliferano nelle stagioni di transizione fra temperature alte e fredde, l’accorciamento delle temperature autunnali e invernali e l’innalzamento delle temperature in zone dal clima tipicamente più temperato aumentano il numero di zecche in paesi che prima erano relativamente poco interessati dal fenomeno, aumentando così la probabilità di trasmissione di batteri come quello che causa la malattia di Lyme.

    Nel sud Europa, Italia compresa, una malattia che comincia a diffondersi maggiormente è il West Nile Virus. L’Istituto Nazionale di Sanità ha pubblicato un articolo in cui si evidenzia come i numeri di persone colpite siano incrementati e come le infezioni siano iniziate in anticipo rispetto all’estate. Inoltre, l’Istituto collega l’incremento dei casi all’alluvione in Emilia Romagna, perché le zanzare che portano il virus proliferano nelle acque stagnanti e nei climi caldo-umidi.


Il riscaldamento dell’atmosfera è infatti concausa anche di cambiamenti alla diffusione di alcune specie animali. In un articolo pubblicato da Internazionale nell’aprile 2023, Stefano Liberti racconta di come l’aumento nel numero di granchi blu, favorito dal maggior calore dell’acqua, stia provocando ingenti danni alle attività tradizionali di pesca tunisine.

In generale, il riscaldamento climatico è anche concausa (insieme a distruzione di habitat e inquinamento) di una forte perdita di biodiversità. Questa perdita ha ramificazioni di cui si parla da anni, come la diminuzione della popolazione degli orsi polari. Ne ha di altre meno raccontate ma non meno inquietanti. La diversità vegetale, ad esempio, è fondamentale per lo sviluppo di medicinali; ci sono ricercatorə che stanno cercando di sviluppare farmaci a partire dai funghi. La perdita di biodiversità, insomma, non solo innesca effetti a catena devastanti su agricoltura e allevamento, ma influisce anche su attività umane, come la farmacologia, che il senso comune potrebbe vedere come più distanti. 


    Abbiamo fatto una rapida carrellata di alcuni fenomeni concausati dal cambiamento climatico. Avremmo potuto citarne altri, ciascuno con le proprie specificità. Lo stesso fenomeno avrà infatti impatti diversi su territori diversi. In Italia lo scioglimento dei ghiacciai è un grave colpo per gli ecosistemi alpini e un fattore di pericolo per chi frequenta le montagne, nonché per chi vive vicino a fiumi che, a causa dell’incremento della portata d’acqua, potrebbero esondare. Ma, come raccontano Mastrojeni e Pasini in Effetto Serra Effetto Guerra, in Afghanistan, un paese che dipende dallo scioglimento stagionale dei ghiacciai per poter usufruire di acqua dolce, lo scioglimento di un ghiacciaio significa una crisi idrica – le persone non hanno acqua da bere – alimentare – perché non c’è acqua per irrigare o per gli animali – e igienica – non c’è acqua per l’igiene umana. Ma passiamo ora al lato temporale della questione. Quanto tempo ci vorrà per vedere questa esacerbazione delle crisi legate al riscaldamento climatico?


Come si misurano gli impatti del cambiamento climatico?


Per rispondere a questa domanda entriamo nel campo delle previsioni. Da decenni, organismi internazionali pubblici e privati si occupano di costruire modelli per prevedere la scala del riscaldamento climatico e i fenomeni che ne saranno causati. Il più noto di questi organismi è l’IPCC, Interdisciplinary Panel on Climate Change. Questa organizzazione pubblica report annuali in cui si discutono diversi scenari di riscaldamento globale. Nel report del 2023, l’IPCC fa notare come solo in uno scenario di forte e immediata riduzione delle emissioni di CO2, che punti a raggiungere l’obiettivo di zero nuove emissioni nel 2050, sia possibile arginare l’aumento delle temperature a 1.4°C entro il 2100. Sforzi notevoli sono richiesti anche per non sforare il limite di un aumento di 2°C, sempre entro il 2100, l’anno che in genere queste proiezioni si pongono come limite (ma lo scorrere del tempo e delle generazioni ovviamente continuerà oltre il 2100). Questi dati indicano medie globali: in alcuni territori, ad esempio il bacino del Mediterraneo, gli aumenti saranno comunque più elevati. Già con due gradi in più, l’IPCC elenca una serie di conseguenze indicate con high confidence, cioè molto probabili: l’innalzamento del livello del mare, l’aumento delle temperature e quindi delle ondate di calore e degli eventi climatici estremi, la perdita di biodiversità, l’aumento dei vettori che portano malattie (come le zanzare) e la riduzione della produzione agricola di alcune colture. A 4 gradi, l’IPCC indica:


Le proiezioni collegano un riscaldamento globale uguale o superiore a 4 gradi a impatti su larga scala sui sistemi naturali e umani (high confidence). Oltre i 4 gradi, gli impatti che si proiettano a proposito dei sistemi naturali includono l’estinzione a livello locale del 50% delle specie marine tropicali (medium confidence) e cambiamenti del bioma (ndt: cioè, quando un habitat diventa inospitale, così che i suoi abitanti devono o mutare per adattarvisi, o spostarsi verso un altro habitat) diffusi sul 35% dell’area terrestre del pianeta (medium confidence). A questo livello di riscaldamento, le proiezioni prevedono che circa il 10% della superficie terrestre globale affronterà mutazioni estreme nei flussi d’acqua, sia estremamente in alto che estremamente in basso, cosa che, senza misure di adattamento, le proiezioni prevedono che avrà un impatto diretto su 2.1 miliardi di persone (medium confidence) e che causerà scarsità d’acqua per circa 4 miliardi di persone. A 4°C di riscaldamento, l’area bruciata a livello globale si prevede che aumenti dal 50 al 70% e la frequenza degli incendi del 30% rispetto a oggi (medium confidence). (2023: 71)


Prima di passare a cercare di immaginare cosa significhi un futuro più caldo, vale la pena accennare al fatto che anche lo sviluppo di proiezioni e modelli come quelli proposti dall’IPCC è un tema al centro di un dibattito critico. Stoddard et. al. (2021) fanno notare come questi modelli spesso prendano in considerazione anche strumenti di mitigazione molto criticati e ampiamente ritenuti per ora irrealistici, come i cosiddetti BECCS, i sistemi di cattura di CO2 tramite tecniche di ingegneria (di cui parleremo in un altro articolo di questa serie). Se è importante tenere a mente questo, altrettanto importante è ricordare che il fatto che questi incrementi ci saranno è dimostrato e oggetto di largo accordo anche fra organizzazioni dalla diversa visione politica.


Cosa significa vivere con 2°C in più? lo riassume David Wallace-Wells nel suo libro del 2019 The Unhabitable Earth: Life After Warming:


A due gradi, le calotte di ghiaccio inizieranno a collassare, 400 milioni di persone in più soffriranno per la scarsità d’acqua, grandi città nella fascia equatoriale del pianeta diventeranno invivibili, e anche nelle latitudini settentrionali le ondate di calore uccideranno migliaia di persone ogni estate. Ci sarebbero 32 volte più ondate di calore estreme in India rispetto a oggi, e ciascuna durerebbe cinque volte tanto, mettendo in pericolo 93 volte più persone. Questo è lo scenario migliore che abbiamo.


E a tre gradi? Quale differenza fa un grado? Wallace-Wells, di nuovo:


… L’Europa del Sud sarebbe in siccità permanente, e il periodo di siccità medio in America Centrale durerebbe 19 mesi in più e nei Caraibi 21. Nell’Africa Settentrionale, la cifra è di 60 mesi più lunga – cinque anni. Le aree bruciate ogni anno da incendi raddoppierebbero nel mediterraneo e sarebbero sei volte tanto, o più, negli Stati Uniti.


A quattro gradi:


… ci sarebbero 8 milioni casi di febbre dengue in più ogni anno solo in America Latina e qualcosa di simile a crisi alimentari globali di durata annuale. Ci sarebbero il 9% in più di morti legati a ondate di calore. I danni provocati da esondazioni di fiumi crescerebbero del 30% in Bangladesh, venti volte in India e 60 volte nel Regno Unito. In alcuni posti, sei disastri naturali causati dal clima potrebbero colpire simultaneamente, e, a livello globale, i danni potrebbero superare i 600 trilioni di dollari – più del doppio della ricchezza che esiste oggi nel mondo. Il conflitto e le situazioni di guerra raddoppierebbero.


Wallace-Wells fa riferimento a siccità e alluvioni,  ma anche allo scioglimento dei ghiacciai, all’innalzamento del livello del mare e alla sua acidificazione, e alle perturbazioni estreme, tornadi e bombe d’acqua. Come abbiamo letto nel primo articolo, questi problemi sono tutti collegati fra loro, secondo il meccanismo che  nel gergo di chi studia questi argomenti si chiama positive feedback loop, cioè la tendenza di eventi concausati dall’innalzamento delle temperature a causarne altri che a loro volta innescano un innalzamento delle temperature – e così via. Ogni volta che viene raggiunto uno stadio di questa catena da cui non si può più tornare indietro si parla di tipping pointil punto in cui da una situazione in cui ci si trova in bilico, ci si sbilancia e si cade definitivamente in un nuovo stato delle cose.


Leggere Wallace-Wells ci permette di mettere a fuoco due elementi fondamentali: per prima cosa, il riscaldamento climatico colpisce tutto il globo, dato che si tratta di un fenomeno che innesca catene di causa ed effetto lunghe e interconnesse. Tuttavia, per ora alcuni luoghi sono più colpiti, e luoghi più fragili possono subire le conseguenze di questi fenomeni più duramente. Secondo, i disastri naturali hanno conseguenze a livello economico e sociale, come nel caso della povertà indotta dai fenomeni di siccità e dalle alluvioni improvvise. Un articolo di questa serie affronterà proprio su questi temi.


Per ora, soffermiamoci sul primo punto: la diseguaglianza nella crisi climatica. Nel suo libro The Climate Crisis, pubblicato nel 2023, Adam Aron parla dell’incontro di Copenhagen, un summit tenutosi nel 2009 il cui documento finale stabilì che l’incremento della temperatura ritenuto accettabile era di 2°C. Al summit di Copenhagen, racconta Aron, il principale negoziatore dei paesi del sud globale, Lumumba Di’Aping, protestò affermando che chiedere ai paesi del sud di firmare un accordo per due gradi significava chiedere loro di firmare “un patto suicida”, perché 2 gradi in più di media a livello globale significano 3.5 gradi in alcune zone dell’Africa (Aron 2023: 25). Si tratta, nota Aron, di un dato promulgato dall’IPCC e confermato dal rapporto del 2021.


Nel 2015, gli stati membri della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico hanno stipulato a Parigi un accordo che prevede il ridimensionamento delle emissioni necessario a mantenerci sotto il livello di 2°C oltre la temperatura del periodo preindustriale, con uno sforzo ulteriore per restare nel limite di 1.5°C (parliamo sempre di medie globali). A oggi, attivistə climatichə fanno notare come raggiungere questo target richieda misure estremamente urgenti ed efficaci, come del resto abbiamo già letto nel report IPCC. Per inciso, notiamo che documenti, sia quello di Parigi che quello di Copenhagen, non sono vincolanti. A Copenhagen fu il presidente statunitense Obama a proporre che questi accordi fossero proposti e sottoscritti dai singoli paesi e non vincolanti, come scrive sempre Aron: questo a significare come non solo le leadership più tipicamente legate al negazionismo nel discorso pubblico, come quella repubblicana negli Stati Uniti, si siano mostrate pavide di fronte alla necessità di agire. 

 

Alcunə scetticə si aggrappano ai dati relativi all’emisfero nord (o ad alcuni di essi) per sostenere che il cambiamento climatico potrebbe avere un impatto positivo sull’economia, perché con lo scioglimento dei ghiacci aumenta la superficie arabile nel nord del mondo; inoltre, l’innalzamento delle temperature rende la vita meno difficile nei paesi freddi. Solomon Hsiang, nel libro edito da Greta Thunberg The Climate Book, fa notare che i cambiamenti climatici non sono lineari, cioè non hanno lo stesso impatto ovunque:


… l’impatto del riscaldamento dipende dalla temperatura attuale di una data località. In generale, si osserva che se una comunità vive in un posto freddo (per esempio in Norvegia) l’aumento delle temperature è utile: diminuiscono i costi del riscaldamento e l’incidenza delle sindromi respiratorie invernali, mentre aumenta la produttività sul lavoro. Se una comunità vive in un luogo temperato (per esempio in Iowa, negli Stati Uniti), il riscaldamento incide ben poco in termini di benessere. Molti studi rilevano come la temperatura media «ideale» sia tendenzialmente compresa tra i 13 e i 20°C. Se una comunità vive in un posto caldo (per esempio in India), un ulteriore riscaldamento èassai dannoso: distrugge i raccolti, acuisce le malattie trasmesse da vettori e rallenta la crescita economica. Un grado in più non ha lo stesso effetto ovunque, e ciò ha profonde implicazioni ai fini della disuguaglianza globale.


Come al solito, per pensare in modo efficace alla crisi climatica dobbiamo pensare a livello globale e sistemico.

 Quello della diseguaglianza nell’essere colpiti dalle temperature più alte è un effetto vissuto anche all’interno degli stessi luoghi, in Italia per esempio: le persone che non hanno soldi per l’aria condizionata (che va comunque ad alimentare le emissioni di CO2); quelle che abitano in aree fortemente cementificate e trafficate, elementi che amplificano l’effetto del caldo; quelle che vivono in territori sempre più idrogeologicamente instabili; quelle che lavorano nei campi o nei cantieri durante un’ondata di calore, fenomeni ormai non più straordinari, che tutti gli anni mietono decine di migliaia di vittime in Europa.

Soffermiamoci su un esempio particolare per dare un’idea dell’effetto sistemico della crisi climatica. L’agricoltura è influenzata dall’aumento delle temperature e dal ciclo siccità/alluvione che, come abbiamo visto, ne è diretta conseguenza. Stefano Liberti nel suo libro Terra bruciata. Come la crisi ambientale sta cambiando l’Italia e la nostra vita, pubblicato nel 2020, racconta di come anche in Italia le colture agricole stanno risentendo delle temperature più alte. Questo non solo per la siccità, ma anche a causa della maggiore presenza di insetti cosiddetti “alieni”, cioè che storicamente erano assenti dai campi italiani e solo recentemente li stanno abitando, talvolta causando problemi alle colture. Liberti porta l’esempio della viticoltura abruzzese. Un produttore vinicolo da lui intervistato, Francesco Paolo Valentini, racconta di come il caldo abbia un impatto sulla produzione: «Il caldo forte giorno e notte anticipa in maniera anomala la maturazione zuccherina e blocca la maturazione fenolica, ossia lo sviluppo di aromi, profumi, colori. I vinaccioli nel chicco restano verdi e non lignificano, e la stessa polpa rimane acerba». Liberti 2020 (posizioni nel Kindle 2449-2451).

Questi cambiamenti rappresentano sicuramente un fattore problematico per l’agricoltura italiana, per ora soprattutto a livello economico, anche se, come fa notare Liberti, alcunə agricoltorə hanno iniziato ad adattarsi cambiando colture, introducendo ad esempio manghi e litchi. Ma quando parliamo di adattamento dobbiamo sempre pensare a livello globale: all’esigenza di nutrire chiunque viva sul pianeta.


Emissioni, transizione verde e colonialismo: il caso del Sahel


Prendiamo un altro caso specifico riguardo al potenziale impatto del riscaldamento dell’atmosfera sull’agricoltura, leggendo un report sul Sahel pubblicato nel 2022 dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nota soprattutto con l’acronimo del suo nome inglese OECD. Il Sahel è un’area dell’Africa Centrale che comprende Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Chad. Il concetto usato dall’OECD per leggere la situazione del Sahel è quello di “fragilità ambientale”, che il report definisce così: 


la fragilità ambientale è la combinazione dell’esposizione al clima, dei rischi ambientali e sanitari e della insufficiente capacità di gestire, assorbire o mitigare questi rischi da parte dello stato, dei sistemi e/o delle comunità.


Il report indica come alcuni studi prevedano un incremento fra i 2 e i 4 gradi delle temperature in Sahel entro il 2080. Questo dato viene associato a una diminuzione della resa delle colture agricole di oltre il 10% in un paese in cui ci sono già problemi con l’approvvigionamento alimentare. Anche l’allevamento sarà colpito dalla crisi climatica, dato che il caldo può avere impatto negativo sulla salute degli animali e rendere più difficile reperire acqua e cibo per nutrirli. Il cambiamento climatico porterà con sé anche un aumento della frequenza e dell’intensità di fenomeni estremi come incendi e inondazioni. Gli apparati statali non sono considerati da questo report in grado di fronteggiare questi eventi. 


Ma c’è un’altra conseguenza indiretta della crisi climatica. Il Sahel è ricco di miniere e di petrolio. L’estrazione di petrolio è notoriamente una delle attività che producono più CO2, oltre ad avere effetti diretti sulla salute delle persone che vivono attorno alle piattaforme, attraverso i gas emessi attraverso attività come il flaring, cioè l’eliminazione di gas sotterraneo attraverso il fuoco.

 Le miniere, invece, contengono non solo oro, ma anche quei materiali che servono per lo sviluppo di batterie elettriche e materiale per gli impianti di energia eolica e solare. Si tratta quindi di quelle sostanze che servono per la transizione verde. Se è già dimostrato che lo sfruttamento non regolato delle miniere d’oro ha dato adito a pratiche violente e dinamiche inquinanti nel Sahel, si teme che l’attività mineraria di questo tipo aumenterà a causa della presenza dei minerali necessari per la transizione ecologica. L’intensificata attività mineraria, se dovesse proseguire in assenza di una regolamentazione adeguata, rischia di aumentare la crisi sociale restringendo ulteriormente l’accesso delle popolazioni locali alle risorse naturali e sottraendo territorio all’agricoltura, senza distribuire ricchezza a livello locale. Inoltre, si teme che i prodotti di scarto delle attività minerarie saranno scaricati nei territori circostanti, creando inquinamento e problemi per la salute della popolazione locale.

 Non solo le maggiori inquinanti sono le compagnie del petrolio e del gas occidentali, che sfruttano ed inquinano territori attraverso pratiche dimostrabilmente dannose per la salute umana; non solo è lo stile di vita delle persone più benestanti a generare la maggior parte delle emissioni di anidride carbonica prodotte da privatə cittadinə; ma anche la transizione ecologica rischia di venir effettuata in parte sulle spalle delle popolazioni più povere del pianeta, che sono quelle che stanno ancora vivendo le conseguenze del colonialismo e subendo pratiche neocoloniali.


La responsabilità dei governi occidentali  

Soffermiamoci un attimo sul tema dell’ingiustizia climatica per problematizzare un’altra delle giustificazioni che viene addotta da chi crede che l’occidente non deve prioritizzare la riduzione delle emissioni: il dato secondo il quale gli stati che producono maggiori emissioni sono la Cina e l’India e dunque, in un certo senso, l’occidente non può farci molto. Questo argomento però, se in superficie pare basarsi su un dato oggettivo e quindi indiscutibile, è facilmente refutabile se pensiamo ad alcuni elementi che spesso vengono taciuti da chi lo propone. Prima di tutto, il secondo paese produttore di emissioni dopo la Cina sono comunque gli Stati Uniti. Inoltre, Cina e India hanno un numero di abitanti fortemente superiore a quello dei paesi occidentali: ne consegue che, dividendo la cifra di emissioni per il numero di abitanti di uno stato, una persona che vive in uno stato occidentale “produce” un numero di emissioni fortemente maggiore di una che vive in India o in Cina. In più, se questi paesi producono così tanta CO2 è anche perché sono la sede di moltissime grandi fabbriche. Ma i prodotti di queste fabbriche vengono poi spediti e comprati in Occidente. Quindi questi paesi producono molta CO2 anche perché in un certo senso sono diventati la fabbrica del mondo. Ma sono le persone che consumano nei paesi più ricchi che usano i prodotti cui è legata l’emissione della CO2. Inoltre, la CO2 può restare nell’aria anche molto a lungo. Una volta fatti questi aggiustamenti diventa evidente come la responsabilità del riscaldamento climatico riposi per la maggior parte sull’Occidente. Questa differenza nella responsabilità si muove anche sulla linea della ricchezza accumulata dalle singole persone. Come rimarcano Stoddard et al, “recenti ricerche suggeriscono che, a livello globale, il 20% più ricco ha la responsabiltà di metà delle emissioni cumulative dal 1990, e l’1% più ricco di più del doppio delle emissioni del 50% più povero. (2021: 656)”.


Per ribadire questo concetto, alla conferenza di Rio del 1992 si è affermato il principio delle “responsabilità comuni ma differenziate”. Come riassume Adam Aron, adottare questo principio significa riconoscere che:


… ciascun paese ha capacità differenti per combattere il cambiamento climatico, riconoscendo che, per esempio, i paesi ricchi avrebbero la possibilità di tagliare le emissioni prima con conseguenze meno nefaste per la loro popolazione rispetto a paesi meno sviluppati. Riguarda anche delle considerazioni di ordine morale a proposito di equità e responsabilità storica, come per esempio riconoscere che far uscire dalla povertà miliardi di persone povere in paesi in via di sviluppo richiederà l’uso di energia e che far costare di più l’energia potrebbe così avere un effetto contrario rispetto al miglioramento del loro benessere. Riconosce anche che, al di là dei livelli attuali dell’uso di energia, la grande maggioranza della CO2 nell’atmosfera è già stata messa là dai paesi ricchi e industrializzati.  (2023: 18)


Si tratta di concetti molto dibattuti, che, come suggeriscono alcunə attivistə, non devono comunque essere usati per rimandare le misure di contrasto al riscaldamento climatico globale. Le emissioni di India e Cina sono comunque fortemente aumentate negli ultimi anni (https://ourworldindata.org/co2/country/china?country=CHN~IND), e i due paesi, nonostante abbiano implementato delle misure verso la transizione all’energia eolica e solare (secondo IEA, in questo momento il 40% dell’energia dell’India proviene da fonti non fossili), sono comunque fortemente legati all’utilizzo dell’energia fossile. Ma quello che risulta chiaramente, al di là del dibattito,  è che il fatto che paesi come Cina e India producano più CO2 in termini assoluti oggi non può essere una scusa per le persone che vivono nel nord del mondo per adottare un comportamento fatalista o per demandare la responsabilità delle mitigazioni. Un’urgenza che diventa ancora più evidente se pensiamo ai danni che le imprese dell’energia basate in Occidente hanno causato nel sud globale. Per quanto riguarda l’Italia, ENI ha spesso adottato comportamenti discutibili nei paesi e nelle regioni italiane in cui opera. Il mensile Altreconomia ha recentemente dedicato più articoli alle attività di ENI, per esempio quelle in Mozambico, dove si pensa che ENI abbia sfruttato una serie di escamotage permessi dalla forma dei trattati internazionali per eludere le tasse nel paese africano (Altreconomia 260), e in Tunisia. Qua ENI opera nella regione di Tatouine, un’area povera del paese, seppur ricca di idrocarburi, che non beneficia dei profitti dell’industria dell’energia. Nel 2017, quando i lavoratori ENI hanno scioperato e protestato, lo stato tunisino ha messo a disposizione l’esercito per far rientrare le proteste, come racconta il report di ReCommon “Sabbie mobili”. Negli scontri con l’esercito viene ucciso un ragazzo di 23 anni. Quando nel 2020 ci sono nuove proteste, sotto l’attuale presidente Kais Saied, si replica lo stesso schema.  


La necessità è quella di agire subito per fermare queste ingiustizie, cambiare il sistema ed affrontare il riscaldamento globale. Ma allora, cosa si può fare? In altri articoli di questa serie ci occuperemo di questo.

Giulia Bigongiari




Sitografia


Alluvione in Emilia Romagna, i Climatologi: « Un Ciclone Intrappolato Sugli Appennini. Diventerà La Norma». Corriere.It’ https://www.corriere.it/cronache/23_maggio_17/alluvione-emilia-romagna-climatologi-ciclone-intrappolato-appennini-diventera-norma-86b7d9d2-f4db-11ed-b7d9-7d259dd28bda.shtml


Devastating Hawaii Fires Made “Much More Dangerous” by Climate Change | Hawaii Fires | The Guardian. https://www.theguardian.com/us-news/2023/aug/11/hawaii-fires-made-more-dangerous-by-climate-crisis


Febbre West Nile – 2021-2022. https://www.epicentro.iss.it/westnile/2021-2022


Global “Stilling”: Is Climate Change Slowing Down the Wind?. Yale E360https://e360.yale.edu/features/global-stilling-is-climate-change-slowing-the-worlds-wind


Hikers urged to check themselves for ticks after deadly virus found in UK | Health | The Guardian. https://www.theguardian.com/society/2023/apr/05/hikers-urged-to-check-themselves-for-ticks-after-deadly-virus-found-in-uk


How Colonialism Contributed to the Maui Wildfires. Mother Jones https://www.motherjones.com/environment/2023/08/how-colonialism-contributed-to-the-maui-wildfires/ 


How Does Climate Change Affect Hurricanes?, Earth@Home https://earthathome.org/quick-faqs/how-does-climate-change-affect-hurricanes/


I Nuovi Dati Città Clima in Occasione Della Giornata Mondiale Dell’Ambiente – Città Clima https://cittaclima.it/2023/06/05/i-nuovi-dati-citta-clima-in-occasione-della-giornata-mondiale-dellambiente/


In zone alluvionate è opportuno seguire le indicazioni delle Autorità Sanitarie, ISS. https://www.iss.it/-/in-zone-alluvionate-%C3%A8-opportuno-seguire-le-indicazioni-delle-autorit%C3%A0-sanitarie


La truffa delle emissioni. Internazionale, N. 1496. https://www.internazionale.it/magazine/tin-fischer/2023/01/26/la-truffa-delle-emissioni


Qual è Il Legame Tra Il Cambiamento Climatico e Le Alluvioni in Emilia-Romagna. Il Post https://www.ilpost.it/2023/05/18/alluvione-emilia-romagna-cambiamento-climatico/ 


Take it from a Canadian, ticks aren’t nice – and climate change means they’re thriving in the UK | Stephen Buranyi | The Guardian. https://www.theguardian.com/commentisfree/2023/apr/05/canada-ticks-uk-climate-change


What Is Gas Flaring?. Worldbank. https://www.worldbank.org/en/programs/gasflaringreduction/gas-flaring-explained 


Bibliografia


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