Il (mancato) riconoscimento giuridico dei migranti ambientali

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I migranti ambientali e la Convenzione di Ginevra sui Rifugiati

La crisi climatica e i suoi effetti disastrosi sull’ambiente stanno provocato una vera e propria crisi sociale: la mobilità climatica sta determinando lo spostamento di milioni di persone, che non godono di un riconoscimento formale del proprio status. Attualmente, non esiste un accordo internazionale sulla definizione e la tutela delle persone costrette a fuggire a causa di problemi ambientali. Come già detto nel precedente articolo, nel 2007 l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) ha proposto una definizione ampia e flessibile di migrante ambientale”. Secondo l’OIM, i migranti ambientali sono «persone, o gruppi di persone, obbligate a lasciare le loro abitazioni a causa di un cambiamento improvviso o progressivo dell’ambiente che influisce negativamente sulle loro condizioni di vita, e che quindi si spostano all’interno del loro paese o all’estero».

La mancanza di una definizione giuridica è il risultato di un dibattito scientifico e giuridico in corso dagli anni 70. Uno  dei principali punti di discussione è la necessità di distinguere e non confondere la definizione dello status di rifugiato, come stabilita nella Convenzione di Ginevra sui Rifugiati e nel suo Protocollo Aggiuntivo. Secondo la Convenzione di Ginevra, un rifugiato è una persona che, a causa di un fondato timore di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un gruppo sociale specifico o opinione politica, si trova al di fuori del paese di cui è cittadino e non può o non vuole avvalersi della protezione di quel paese. Pertanto, la comunità internazionale non riconosce la categoria dei rifugiati climatici perché non considera la crisi climatica come una causa di persecuzione. 

 

È possibile colmare la lacuna giuridica?

Eppure, secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, entro il 2050 circa 250 milioni di persone si sposteranno per cause legate al cambiamento climatico. Se la popolazione che migra all’interno di un territorio può essere definita IDP (internally displaced people), come possiamo definire coloro che oltrepassano i confini nazionali a causa della crisi climatica? 

Per Essam El-Hinnawi, ricercatore UNEP (United Nations Environment Programme), possiamo definire rifugiati ambientali gli individui costretti a lasciare il loro Stato in via temporanea o definitiva, a causa di un grave sconvolgimento ambientale che ha messo in pericolo la loro esistenza e/o ha gravemente influito sulla qualità della vita

In particolar modo, se la causa è fondatamente provata essere derivante dal cambiamento climatico, questi possono essere specificatamente appellati rifugiati climatici. Nella definizione di El-Hinnawi, i rifugiati ambientali vengono poi suddivisi in: environmental emergency migrants, se migrano solo in maniera temporanea per via di disastri ambientali; environmental forced migrants, se sono costretti ad emigrare in maniera permanente essendo vittime di disastri irreparabili come la deforestazione; ed environmental motivated migrants, nel caso di coloro che scelgono di spostarsi poiché non più capaci di sostentarsi attraverso le risorse della loro terra d’origine per via del degrado ambientale.

Una problematica di forte rilevanza è la mancanza di una vera e propria definizione giuridica dello status di rifugiato climatico. Basterebbe estendere anche ai rifugiati climatici la Convenzione di Ginevra sullo stato dei rifugiati del 1951, il cui articolo 33 sancisce il diritto di non respingimento. Nonostante la Convenzione in questione non faccia alcun riferimento all’ambiente o alle conseguenze del cambiamento climatico, dovrebbe essere interpretata in maniera estensiva anche alla stregua dell’articolo 14 della Dichiarazione universale sui diritti umani del 1948, che sancisce il principio di non-refoulement, ovvero il diritto di richiesta d’asilo al fine di evitare le persecuzioni nel proprio Paese d’origine. Dunque, nessun rifugiato può essere respinto da uno Stato nel caso in cui la propria vita sia seriamente compromessa nel Paese d’origine. Purtroppo, i rifugiati ambientali risultano una categoria non protetta dal principio di non respingimento per via della difficile applicabilità della Convenzione di Ginevra. Difatti, uno Stato garantisce protezione internazionale soltanto nel momento in cui un soggetto fugge dal proprio Paese non avendo ricevuto alcuna protezione. Se lo Stato ha però intrapreso azioni volte alla protezione dei propri cittadini da calamità naturali o disastri ambientali, il caso non rientra nell’ambito di applicazione. Pertanto, l’impegno dello Stato nelle azioni di adattamento e mitigazione è causa di non ricevibilità della domanda. Ad oggi, in ogni caso, lo status di rifugiato climatico sta progressivamente ricevendo l’attenzione della comunità internazionale, nonostante la mancanza di un accordo formale in materia. Secondo gli accademici Docherty e Giannini (2009), una definizione di rifugiato climatico dovrebbe comprendere sei elementi: migrazione forzata, trasferimento temporaneo o permanente, spostamento attraverso i confini nazionali, disagi coerenti con il cambiamento climatico improvviso o graduale, e l’impatto della popolazione sul dissesto climatico. 

Tuttavia, sono state sollevate critiche sul tentativo di attribuire il termine “rifugiati alle persone sfollate internamente ed esternamente. Nel giugno 2019, Dina Ionesco, responsabile dell’Ufficio per la migrazione, l’ambiente e il cambiamento climatico (Migration Environment and Climate Change) della Divisione Migrazione, Ambiente e Cambiamento Climatico (MECC) dell’OIM ha espresso riserve sul status di rifugiato ai migranti climatici. La sua preoccupazione è che ciò possa indebolire la validità giuridica della Convenzione sui rifugiati del 1951, escludendo al contempo gli sfollati climatici che non sono in grado di dimostrare che il loro sfollamento forzato sia dovuto al clima. Per quanto riguarda la necessità di una nuova convenzione in materia, l’UNHCR sostiene che gli sfollati a causa di un cambiamento ambientale potrebbero, in teoria, continuare a contare sulla protezione dei governi nazionali mentre i rifugiati tradizionali non potrebbero in quanto gli Stati sono spesso la fonte della persecuzione e quindi un individuo “non è disposto ad avvalersi della protezione di quel Paese come richiesto dall’articolo 1A paragrafo 2, della Convenzione sui rifugiati del 1951. Nella realtà, alcune regioni colpite da disastri climatici ricorrenti (per lo più nel Sud del mondo, la principale fonte di movimenti migratori) hanno difficoltà a riprendersi da questi eventi, poiché spesso si sovrappongono a problemi strutturali già pre-esistenti. Pertanto, l’approvazione di una nuova convenzione vincolante volta a offrire protezione legale e sostegno agli sfollati, dovrebbe essere almeno presa in considerazione. 

 

Il caso Teitiota e la giurisprudenza

Il caso giurisprudenziale che ha mosso la comunità internazionale in tal senso è il caso Teitiota. Nel 2013 il cittadino della Repubblica di Kiribati Ioane Teitiota chiese protezione al governo della Nuova Zelanda sostenendo che la sua vita e quella dei suoi familiari fossero a rischio a causa degli effetti del cambiamento climatico. Secondo il ricorrente, la vita nell’isola di Tarawa, una delle 33 isole oceaniche che compongono Kiribati, a breve sarebbe divenuta insostenibile per via dell’innalzamento del livello del mare e delle sue conseguenze come la scarsità di acqua dolce, il sovraffollamento dell’isola e le relative lotte interne riguardanti le terre coltivabili. Kiribati era così diventato un ambiente inadatto per poter condurre una vita dignitosa. 

Pertanto, il ricorrente chiese asilo in Nuova Zelanda ma lImmigration and Protection Tribunal ne rigettò la richiesta, nonostante non escludesse la possibilità che il degrado ambientale potesse “creare nuovi percorsi verso la Convenzione sui Rifugiati”. Infatti, dopo una lunga analisi degli standard internazionali in materia di diritti umani, il Tribunale stabilì che “sebbene in molti casi gli effetti dei cambiamenti climatici non inseriscano le persone colpite nell’ambito della Convenzione sui rifugiati, non esistono regole rigide o presunzioni sull’applicabilità. Occorre prestare attenzione nell’esaminare le particolarità del caso”. Il Tribunale concluse che l’autore non correva oggettivamente un rischio reale di essere perseguitato a Kiribati. Per tale ragione, non poteva essere considerato un “rifugiato” come definito dalla Convenzione relativa allo status di rifugiato di Ginevra. La Corte d’Appello e la Corte Suprema respinsero ciascuna i successivi ricorsi dell’autore sulla stessa materia. 

Ad inizio 2020, Teitiota si rivolse dunque alla Commissione ONU per i Diritti Umani affermando che, rigettando la sua richiesta di asilo, la Nuova Zelanda avesse violato il suo diritto alla vita ai sensi dell’articolo 6 del Patto sui diritti civili e politici del 1966. Sulla base delle informazioni ottenute, il Comitato ritenne che il ricorrente avesse sufficientemente dimostrato che il cambiamento climatico e l’innalzamento del livello del mare rappresentassero un rischio reale di compromissione del suo diritto alla vita ai sensi dell’articolo 6 del Patto. Inoltre, il Comitato sottolineò che il degrado ambientale, il cambiamento climatico e lo sviluppo insostenibile costituiscono alcune delle più urgenti e gravi minacce alla capacità delle generazioni presenti e future di godere del diritto alla vita. Tuttavia, rilevò che il lasso di tempo da 10 a 15 anni, come suggerito dall’autore, potesse consentire agli interventi governativi, con l’assistenza della comunità internazionale, di adottare misure adeguate alla protezione della popolazione. Dunque, il Comitato, rigettò la richiesta di Teitiota, motivando che “potrebbero esserci interventi da parte della Repubblica di Kiribati, con l’assistenza della comunità internazionale, per adottare misure affermative per proteggere e, ove necessario, ricollocare la sua popolazione”. 

Anche in Italia una recente sentenza della Cassazione ha dato un impulso alla situazione, mettendo il nostro paese nella condizione di offrire protezione sussidiaria ai rifugiati climatici. Infatti, la Cassazione con la sentenza n. 5022 del 9 marzo 2021 della Seconda Sezione Civile afferma che il “nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale”, include non solo l’esistenza di una situazione di conflitto armato, ma anche altre situazioni idonee ad esporre i diritti fondamentali alla vita, alla libertà e all’autodeterminazione dell’individuo al rischio di azzeramento o riduzione al di sotto della soglia minima, compresi i casi del disastro ambientale, del cambiamento climatico e dell’insostenibile sfruttamento delle risorse naturali. La sentenza inoltre cita il caso Teitiota come fondamento del giudizio. Si riprende così il principio per il quale, alla luce di un problema ambientale o climatico, la richiesta può essere accettata, se nel Paese ci sono invece politiche importanti di lotta all’inquinamento e di mitigazione e adattamento al climate change la richiesta può essere rifiutata. Sebbene entrambi i casi possano sembrare una sconfitta, implicitamente si riconosce il fatto che le persone che fuggono dagli effetti dei cambiamenti climatici non dovrebbero essere rimpatriate nel loro Stato se i diritti umani risultino a rischio e se il Paese non ha intrapreso azioni concrete contro i devastanti effetti del cambiamento climatico.

In conclusione, la crisi climatica ha innescato un complesso dibattito riguardante la definizione giuridica e la protezione dei migranti per motivi climatici. Mentre i devastanti effetti della crisi spingono milioni di individui a spostarsi, l’assenza di un accordo internazionale sulla categoria dei migranti climatici ha creato un vuoto normativo e sociale. La mancanza di una definizione giuridica specifica è tuttora un ostacolo, ma l’attenzione della comunità internazionale si sta gradualmente spostando in tal senso. Infatti, l’approccio adottato da alcuni tribunali indica una crescente comprensione delle sfide affrontate dai migranti ambientali. Ciò significa che la giurisprudenza inizia a riconoscere che il cambiamento climatico e il degrado ambientale possono costituire minacce gravi e reali per i diritti umani, aprendo la strada a possibili protezioni legali. Sebbene la definizione e la protezione dei migranti climatici rimangano ancora una questione complessa, il progresso verso un riconoscimento formale e la ricerca di soluzioni legali sono evidenti. La crisi climatica richiede una risposta globale e coordinata, e questa sfida deve essere affrontata con impegno e solidarietà internazionali per garantire un futuro anche a coloro che si vedono costretti a migrare a causa dei devastanti effetti di essa. 

 

Alessia Massari

 

 

Fonti, sitografia e bibliografia:                         

Ambiente, calamità naturali e cambiamenti climatici. UNHCR Italia https://www.unhcr.org/it/ambiente-catastrofi-naturali-e-cambiamenti-climatici/

In Somalia già un milione di profughi ambientali per siccità. Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile. https://greenreport.it/news/clima/in-somalia-gia-un-milione-di-profughi-ambientali-per-siccita/

Migranti ambientali: gli impatti della crisi climatica su milioni di persone. Osservatorio Diritti. https://www.osservatoriodiritti.it/2022/10/26/migranti-ambientali-gli-impatti-della-crisi-climatica/

Rifugiati climatici e ambientali, arriva il riconoscimento giuridico in Italia. Oltremare. https://www.aics.gov.it/oltremare/articoli/pianeta/rifugiati-climatici-e-ambientali-arriva-il-riconoscimento-giuridico-in-italia/

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