Cosa sono le migrazioni climatiche? Chi migra?

La migrazione è un’importante strategia di adattamento alla crisi climatica, oggi come nel passato. Sia nella storia antica che in quella più recente sono presenti esempi di migrazioni climatiche: dalla migrazione in seguito alla siccità nella Valle dell’Indo di 4000 anni fa, passando per le tempeste di polvere dell’American Dust Bowl degli anni Trenta del Novecento, fino ad arrivare a oggi, nel bel mezzo della crisi climatica. Ma cosa significa questo?

Se migrare è una strategia di adattamento consolidata nel tempo, lasciare la propria terra rappresenta sempre più l’unica alternativa per chi vive in quelle zone del mondo in cui gli stress ambientali e gli eventi meteorologici estremi hanno impoverito il territorio, mettendo a rischio gli insediamenti, la salute, il sostentamento e la sopravvivenza delle persone più vulnerabili.

Secondo il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC), oltre il 40% della popolazione mondiale vive in contesti di “estrema vulnerabilità ai cambiamenti climatici”. Si conferma, infatti, un incremento esponenziale del numero di persone costrette ad abbandonare il luogo in cui vivono a causa di disastri ambientali e climatici o, più spesso, a causa di un complesso mix di fattori ambientali, economici, sociali, politici e personali: conflitti, persecuzioni di natura etnica, politica, religiosa, di genere, catastrofi ambientali, accaparramento delle risorse, lenta dissoluzione degli ecosistemi territoriali.

Proprio a causa di quest’ultimo aspetto vi sono spesso grandi difficoltà nel classificare una migrazione come climatica: perché raramente le migrazioni sono indotte dai soli fattori climatici.

«Il fenomeno migratorio – sostiene Cristina Cattaneo, ricercatrice del RFF-CMCC European Institute on the Economics and the Environment – è cosiddetto multicausale, nel senso che esistono una molteplicità di cause alla base della migrazione. I fattori climatici interagiscono con gli altri fattori (sociali, economici, politici e demografici) e solo dalla loro combinazione scaturisce la necessità di migrare. Difficile diventa pertanto l’attribuzione della responsabilità ad una singola causa e l’identificazione di un univoco legame di causa-effetto».

Ad ogni modo, non esiste ancora un’espressione condivisa e unanime per riferirsi a chi migra per ragioni climatiche. Sia nelle pubblicazioni accademiche che in quelle a carattere divulgativo, diverse sono le espressioni utilizzate per riferirsi a tali persone: si parla di migranti climatici, migranti ambientali, eco migranti, migranti ambientali forzati, rifugiati climatici, sfollati ambientali e così via, le cui diverse definizioni cambiano il significato e dunque l’ampiezza di tali concetti. Si tratta non solo di una problematica terminologica, ma di un vero e proprio dibattito scientifico e giuridico ancora aperto – come vedremo in un successivo articolo dedicato alla situazione “legale” – la cui mancata risoluzione impedisce perciò di garantire una tutela ai migranti climatici. Eppure, almeno in teoria, vivere in “un ambiente pulito, sano e sostenibile” è diventato un diritto umano universale, grazie a una recente risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

 

Chi sono, allora, i “migranti climatici”? E cosa sono le migrazioni climatiche?

Dato che non esiste una visione comune sul significato della migrazione climatica e della relativa figura del migrante climatico, è difficile darne una definizione: per semplicità, si utilizzerà quella dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM): «i migranti ambientali sono persone o gruppi di persone che, principalmente a causa di un cambiamento improvviso o progressivo dell’ambiente che influisce negativamente sulla loro vita o sulle loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le loro case abituali, o scelgono di farlo, sia temporaneamente sia permanentemente, e si spostano all’interno del loro paese o all’estero». In questo quadro terminologico, la migrazione climatica consiste in una sottocategoria della migrazione ambientale, riferita a un evento più immediatamente ascrivibile ai cambiamenti climatici.

Lo stesso OIM ha identificato tre forme di mobilità associata ai cambiamenti climatici: la migrazione, con riferimento alle persone che si muovono all’interno o fuori del loro Paese, per varie ragioni, tra cui quelle ambientali; gli sfollati, coloro che sono obbligati a muoversi a causa dei disastri ambientali; infine, i trasferimenti pianificati, riguardano le comunità che vengono spostate in luoghi più sicuri a causa dell’impossibilità di rimanere in territori compromessi in modo irreversibile dagli eventi ambientali.

Inoltre, analizzando le principali cause della migrazione ambientale, la classificazione proposta da Steve Lonergan è piuttosto esaustiva. Secondo lui, possiamo individuare cinque gruppi di fattori, riconducibili ad altrettanti stress ambientali:

  1. Calamità naturali, come ad esempio le inondazioni;
  2. Fenomeni in cui vi è un lento ma progressivo deterioramento dell’ambiente, detti anche a lenta insorgenza, come ad esempio la desertificazione;
  3. Progetti di sviluppo territoriale che comportano cambiamenti nell’ambiente;
  4. Disastri infrastrutturali o industriali;
  5. Conseguenze ambientali dovute a conflitti.

 

Ma in che modo la crisi climatica influenza le migrazioni? Come si arriva alla migrazione climatica? 

Secondo Focsiv, attraverso cinque processi: in primo luogo, attraverso l’aumento delle temperature dell’aria. In secondo luogo, attraverso il cambiamento delle precipitazioni, nella misura in cui si registrano variazioni nella loro maggiore o minore frequenza e intensità, con conseguenze a lenta o rapida insorgenza quali inondazioni, siccità o desertificazione. Il terzo processo è l’innalzamento del livello dei mari dato dalla fusione dei ghiacciai a causa del riscaldamento climatico. Un quarto processo consiste nelle trasformazioni di sistemi climatici regionali evidenti, come nel caso del Niño e dei monsoni asiatici, con un aumento di eventi meteorologici estremi. La somma di questi processi porta ad un quinto e ultimo processo: l’intensificazione della competizione tra popolazioni, Stati e imprese per il controllo e l’utilizzo delle risorse naturali che potrebbe causare conflitti e quindi provocare migrazioni forzate.

Oltre alle migrazioni internazionali, la crisi climatica porta a numerose migrazioni interne, ossia a grandi spostamenti di masse di persone all’interno dei confini nazionali.

Le evidenze dell’IPCC ci dicono che la maggior parte delle migrazioni climatiche si verifica all’interno dei confini nazionali, mentre l’attraversamento del confine internazionale avviene perlopiù tra Paesi vicini. Dal 2008 in media oltre 20 milioni di persone all’anno sono state dislocate all’interno del proprio Paese a causa di eventi climatici estremi.

Così, la maggioranza delle persone che sfolla per disastri climatici quali inondazioni e incendi, lo fa in territori vicini con l’obiettivo di tornare nelle proprie terre; diversamente, nel caso degli eventi climatici a lenta insorgenza, come ad esempio la degradazione del suolo, le persone tendono a spostarsi altrove per cercare di integrare il proprio reddito con occupazioni saltuarie in città vicine.

Sempre considerando le migrazioni interne, secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC), nel 2022 vi sono stati 71,1 milioni di nuovi sfollati interni, di cui 28,3 milioni di persone a causa di violenze e conflitti e 32,6 milioni di persone obbligate a fuggire a causa di disastri ambientali. L’Asia orientale, l’Asia meridionale e il Pacifico sono state le regioni più colpite e i disastri climatici sono stati la principale causa di sfollamento interno in queste zone. Le migrazioni dovute a disastri ambientali si sono verificate soprattutto in Pakistan, nelle Filippine, in Cina, in India e in Nigeria.

Per quanto riguarda il Pakistan, le inondazioni hanno provocato 8,2 milioni di sfollati interni, rendendolo il più grande evento di sfollamento post-disastro al mondo negli ultimi dieci anni: il 10% del paese è stato inondato, per un totale di circa 85.000 km² di terreno.

Come evidenziato in Global Trends, il report statistico annuale dell’UNHCR, il 21% di questi sfollamenti interni si è verificato nei Paesi in via di sviluppo che si trovano in una condizione di maggiore difficoltà e che hanno subito perdite economiche sproporzionate rispetto alle dimensioni delle loro economie a causa dei disastri e cambiamenti climatici.

Inoltre, secondo l’IDMC negli ultimi 15 anni i disastri naturali sono stati la causa principale della maggior parte degli sfollamenti interni.

In realtà, i dati degli sfollati a causa di eventi meteorologici estremi sono decisamente sottostimati, non essendo facile stabilire quando una migrazione è causata direttamente dal clima.

 

Attraverso quale chiave leggere il fenomeno migratorio?

Giunti a questo punto, è doveroso mettere a fuoco un elemento necessario a comprendere a fondo la natura delle migrazioni: il nodo indissolubile tra ingiustizia ambientale e ingiustizia sociale.

«Sono sempre i Paesi poveri e i poveri dei Paesi ricchi a pagare il prezzo più alto e a rischiare di più, ora uniti in questa relazione che affonda le radici nelle disuguaglianze delle società umane e nelle nuove disuguaglianze che si creano» – si legge nel report di Legambiente del 2021 sui migranti ambientali.

Infatti, considerando che l’86% delle persone sfollate emigrate trova rifugio in Paesi in via di sviluppo, i quali sono tra i più vulnerabili dal punto di vista climatico, ci troviamo di fronte a una combinazione esplosiva di possibili ulteriori povertà, tensioni sociali, conflitti e nuove migrazioni.

Il rapporto di causa-effetto tra la crisi climatica e le trasformazioni sociali e l’intrecciarsi di variabili ambientali e sociali è dunque sempre più evidente: l’innalzamento della temperatura, l’accaparramento delle risorse e la devastazione dei territori sono collegati a doppio filo alle prevaricazioni sociali, ai conflitti globali e alle persecuzioni politiche, di genere e religiose.

I numeri finora riportati sono solo destinati ad aumentare: secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, entro il 2050 circa 250 milioni di persone si sposteranno per cause legate alla crisi climatica.

Anche il Rapporto Groundswell della World Bank prevede uno scenario simile: nel caso peggiore, entro il 2050 il surriscaldamento globale costringerà 216 milioni di persone a spostarsi all’interno dei loro Paesi. Nel rapporto si calcolano gli scenari in base alle politiche che verranno (o meno) attuate: nello “scenario pessimistico”, che prevede alte emissioni climalteranti e uno sviluppo diseguale (per il momento, lo scenario più probabile), nell’Africa subsahariana potrebbero essere sfollate fino a 86 milioni di persone; in Asia orientale e nella regione del Pacifico, 49 milioni; in Asia meridionale, 40 milioni; in Nord Africa, 19 milioni; in America Latina, 17 milioni; in Europa orientale e in Asia centrale, 5 milioni. Il rovescio della medaglia è che, secondo gli autori del rapporto, un’azione immediata e concertata per ridurre le emissioni globali e sostenere uno sviluppo sostenibile, inclusivo e resiliente, potrebbe ridurre la portata della migrazione climatica fino all’80%, contenendo la portata degli sfollamenti a circa 44 milioni di persone.

Purtroppo, le preoccupazioni non si esauriscono qui: secondo Kanta Kumari Rigaud, esperta ambientale della World Bank, «in Africa potrebbe avvenire la migrazione climatica su più larga scala all’interno dei diversi paesi».

L’ultimo Rapporto di sintesi dell’IPCC – il quale, essendo l’ultimo da qui al 2030, rappresenta il documento sul quale i governi baseranno le proprie scelte politiche nei prossimi 7 anni – ci mostra lo stato attuale con estrema chiarezza: la brutale verità è che c’è sempre meno tempo per intervenire contro la crisi climatica. Secondo il rapporto, è ben chiaro che i Paesi dovranno assumere misure drastiche entro questo decennio, perché gli effetti negativi della crisi climatica sono già gravi, soprattutto per le comunità rurali, per quelle indigene e per quelle il cui sostentamento dipende da settori direttamente esposti ai rischi climatici, come l’agricoltura, la pesca e il turismo. Ad esempio, l’IPCC prevede che entro il 2030 siccità estreme in tutta l’Amazzonia stimoleranno la migrazione delle popolazioni rurali verso le città, dove le popolazioni indigene saranno probabilmente costrette a vivere ai margini. In tal modo, le diseguaglianze e i conflitti peggioreranno la condizione delle comunità più vulnerabili.

Tuttavia, il rapporto evidenzia anche che possediamo già gli strumenti per invertire la rotta; le decisioni che prendiamo oggi avranno un effetto duraturo sul nostro domani.

Un messaggio positivo, questo, condiviso anche da scienziati di fama internazionale quali Bronson Griscom, vicepresidente del Natural Climate Solutions presso il Conservation International: «Siamo sull’orlo di una delle più grandi trasformazioni economiche della storia umana: se riusciremo a portarla a termine, vivremo in un mondo più ricco in tutti i sensi».

Inoltre, come sostiene Focsiv, «solo assicurando che nessuno venga lasciato indietro saremo in grado di proteggere i diritti umani e la dignità dei migranti, costruire comunità resilienti e sviluppare scenari di mobilità di fronte a queste sfide».

In conclusione, possiamo affermare che tutto il mondo, sebbene in modi e con livelli di intensità diversi, viene e verrà colpito dalla crisi climatica, perciò è nell’interesse comune creare strategie cooperative per farvi fronte, garantendo i diritti di coloro che migrano e creando un mondo più sostenibile per tuttə.


Martina Marcuccetti

 

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