Lavoro nero, lavoro grigio

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Oggi affrontiamo un tema particolarmente spinoso, quello dello sfruttamento lavorativo dei migranti.

Sulla stampa nazionale appaiono, anche se  purtroppo poco frequentemente, allarmanti notizie relative a questo fenomeno. Si legge ad esempio di lavoratori agricoli obbligati a fare turni di oltre 9 ore al giorno in cambio di una paga oraria di 4,5 euro, nettamente inferiore a quella minima prevista dal contratto collettivo nazionale.

All’ingiusta retribuzione si aggiungono quasi sempre condizioni degradanti di lavoro nei campi: braccianti vessati, vigilati costantemente dai “caporali” e costretti a sforzi fisici pesanti per velocizzare la raccolta. E questo nonostante la legge 199/2016, o legge anti-caporalato, grazie alla quale l’Italia ha comunque  compiuto dei passi avanti nella lotta contro questo triste fenomeno.

I titolari delle aziende fanno leva ovviamente sul bisogno di lavorare degli immigrati che, se non si adeguano alle condizioni lavorative imposte, vengono minacciati di licenziamento. Ed ecco  che in questo modo si riesce a ridurre il costo della manodopera e a massimizzare i guadagni. A volte addirittura si assume il lavoratore per due giorni di prova senza compenso con la libertà di non confermarlo, approfittando così di manodopera gratuita.

Inoltre in questo periodo molti braccianti stranieri sono stati lasciati senza protezioni anti-Covid. Un’inchiesta della magistratura, avviatasi nel 2019 e conclusasi di recente, su un’azienda agricola laziale rivela che lavoratori pakistani e bengalesi sono stati costretti a sottoscrivere buste paga false, in cui non venivano contabilizzate le ore di lavoro effettivamente svolte; venivano inoltre costantemente minacciati di sanzioni corporali ed economiche, fino al licenziamento, se non avessero raggiunto gli obiettivi di raccolta che si era dati l’azienda, definiti dagli investigatori proibitivi. Nell’azienda si  ricorreva inoltre all’uso massiccio di fitofarmaci non autorizzati sulle colture in serra, impiegando in tali compiti lavoratori non formati, non abilitati e privi dei dispositivi di protezione, esposti così a gravi situazioni di pericolo.

Lo sfruttamento del lavoro in agricoltura, soprattutto di quello fornito dagli immigrati, non è comunque un fenomeno esclusivamente italiano. Anche in Spagna e in Grecia la condizione di lavoro dei braccianti è drammatica. Lo rivela un’indagine realizzata dall’associazione ambientalista Terra! dal titolo E(U)xploitation. Il caporalato: una questione meridionale. Italia, Spagna, Grecia.

Si legge nel rapporto: «Il peso del comparto agroalimentare nei tre Paesi è imponente. E a lavorare nei campi sono migliaia di braccianti, spesso stranieri e stagionali, costretti a condizioni di vero e proprio sfruttamento, senza il cui lavoro, con la pandemia, la filiera agro-alimentare si sarebbe fermata».

In Spagna i contratti temporanei «al momento rappresentano il 75% del totale dei contratti nel settore agricolo». Contratti simili aiutano a diffondere lavoro nero e lavoro grigio: «Si parla di lavoro grigio quando c’è un contratto di facciata ma i vincoli vengono rispettati solo in parte». In Grecia, secondo il ricercatore Apostolis Fotiadis, c’è una situazione da Far West, in cui le regolamentazioni sono scarse e i controlli quasi assenti. Circa il 90% della forza lavoro agricola è composta da irregolari irregolari.

Nel rapporto  si dà giustamente molto rilievo al ruolo della Grande Distribuzione Organizzata che, imponendo prezzi estremamente bassi ai produttori agricoli, li spinge a rifarsi sui lavoratori attraverso compensi da fame ed orari e condizioni di lavoro disumani. «Ciò che acquistiamo [al supermercato; ndr] non può costare pochi centesimi, non è quello il suo vero costo. E la differenza non la paga la GDO, ma i lavoratori senza tutele».

Ma queste forme così gravi di sfruttamento del lavoro non si verificano solo in agricoltura. Ad esempio, la  Guardia di Finanza di La Spezia, partendo da una serie di controlli nei confronti di una società  di costruzione di yacht di lusso, con oltre 150 dipendenti e con sede, oltre che nella città ligure, anche ad Ancona, ha individuato lo sfruttamento di decine di operai bengalesi che venivano minacciati, picchiati e offesi e pagati 4 o 5 euro l’ora. Gli operai erano assoggettati a turni massacranti (fino a 14 ore al giorno senza permessi e riposi) e sorvegliati a vista dai “caporali”. Tutte irregolarità, queste, vietate e punite dalla recente normativa a contrasto del caporalato.

Si sono verificati casi in cui, in seguito ad un infortunio sul lavoro, i lavoratori extracomunitari, non regolarizzati, erano costretti a fornire una falsa dichiarazione al personale sanitario del pronto soccorso, senza fare alcun riferimento al lavoro svolto. Nei giorni di assenza per malattia i lavoratori non percepivano alcun pagamento. Tutte le buste paga ed i relativi versamenti risultavano, ad un primo controllo, conformi, così come la posizione lavorativa degli operai sembrava in perfetta regola.

In realtà, una volta pagate le buste paga con bonifici bancari, i “caporali” pretendevano, anche con l’uso della violenza e con la minaccia della perdita del posto di lavoro, la restituzione, in contanti, di parte del salario bonificato, costringendo gli operai a continui prelievi al bancomat. Un esempio concreto di “lavoro grigio” anche al di fuori del settore agricolo.

Per saperne di più:
Repubblica del  26 Agosto 2020, del 10 Novembre 2020 e del 19 aprile 2021.
E(U)xploitation. Il caporalato: una questione meridionale. Italia, Spagna, Grecia.