Cosa manca all’Europa

Ancora una volta il Mediterraneo inghiotte centinaia di corpi, in seguito ad un ennesimo naufragio al largo delle coste della Libia. La responsabiltà di queste morti ricade sulle spalle di chi, nonostante le ripetute richieste di aiuto di Alarm Phone, si è rifiutato di intervenire: l’Agenzia europea Frontex, le autorità maltesi, italiane e libiche. Ma è in qualche modo corresponsabile anche un’opinione pubblica ormai assuefatta a queste stragi, indifferente alla sofferenza altrui, tutta chiusa nel proprio egoismo.
Su questo tragico episodio vogliamo condividere con voi una riflessione di Carlo Bonini pubblicata su Repubblica del 24 Aprile

Photo by Mika Baumeister on Unsplash

Cosa manca all’Europa per riscoprire la solidarietà

C’è una sola emozione altrettanto insopportabile di quella restituita dalle immagini dei corpi senza vita, in balia delle onde, vittime dell’ennesima strage di migranti nel basso Mediterraneo. Ed è il senso di vergogna, impotenza, rabbia per il cinismo e la cattiva coscienza di un Paese — il nostro — e di un continente — l’Europa — che ha da tempo inscritto quei cadaveri a “danno collaterale”. Rinunciando scientificamente, per calcolo politico, ignavia, subalternità, anche solo a immaginare una politica dei flussi migratori, del diritto di asilo e un sistema di soccorso in mare in grado di tenere insieme, con equilibrio e umanità, le ragioni della sicurezza dei confini e della lotta al traffico di esseri umani con i diritti fondamentali. Primo fra tutti, quello incomprimibile e antico quanto la nostra specie, che è lo strappare un nostro simile alla morte lenta e terribile per annegamento.
 
Non ci si può rassegnare all’idea che anche oggi, esattamente come il 2 settembre del 2015 di fronte al corpo senza vita del bimbo siriano Alan Kurdi, esattamente come dopo ogni fotogramma di questa silenziosa e immane ecatombe, ci accontenteremo di genufletterci, di giurare invano “mai più”, per poi tornare ordinatamente nella prigione delle nostre convenienze. O della nostra indifferenza. O allo spettacolo osceno dello sciacallaggio ideologico che ancora ieri, mentre la ricerca e la conta dei cadaveri non si era ancora conclusa, voleva, per bocca del suo campione nazionale (Matteo Salvini), nonché azionista di peso del governo, che questo ennesimo pedaggio di morte venga messo in conto ai «buonisti» che «di fatto agevolano gli scafisti». 
 
Del merito delle parole di Salvini e della sua modalità anfibia di stare nel governo abbiamo già detto spesso e molto. E per altro è evidente che, come nella favola di Esopo, non si possa chiedere allo scorpione di astenersi dal pungere, avvelenandola, la rana. Tuttavia, si può chiedere alla rana, di fronte a questa strage, di uscire dalla sua ambiguità, timidezza, prima che queste vengano inscritte al capitolo della complicità politica. 
 
Nessuno può pensare che l’Italia, da sola, possa far fronte a una catastrofe umanitaria continentale. Ma il presidente del Consiglio Mario Draghi è uomo troppo intelligente e avvertito per non comprendere che la strada per immaginare una nuova Italia e una nuova Europa “green” e “blu”, dall’economia circolare e la mobilità sostenibile, che viaggia su reti 5G, non potrà essere né percorribile, né credibile, se continuerà a essere ingombra di cadaveri innocenti senza nome, gonfi dell’acqua in cui sono annegati. E dunque non potrà non ripensare a quanto possano essere suonate infelici le parole con cui, nella sua recente visita a Tripoli, ha ringraziato la guardia costiera libica, la stessa che avrebbe dovuto sulla carta evitare la strage dei 130. Perché quelle parole equivalgono, simbolicamente, al sorvolo dell’aereo di Frontex con la livrea dell’Unione europea sul gommone della strage mentre la strage si consumava. Ad accreditare cioè l’idea che la soluzione di questa immane tragedia passi attraverso la delega delle nostre responsabilità e di quelle dell’Europa ad uno Stato, la Libia, dove i diritti fondamentali non sono esattamente in cima all’agenda, la cui ricostruzione e stabilizzazione richiederanno tempi lunghi e sulla cui sovranità pesano come un macigno le divisioni della guerra civile e l’ipoteca di Erdogan e Putin.
 
Vogliamo insomma pensare che con la stessa forza con cui quando ancora non era presidente del Consiglio, Draghi indicò all’Europa la necessità di cogliere l’occasione della pandemia per cambiare il suo statuto di fortezza assediata dall’esterno e al suo interno, ora, da premier, voglia avere Bruxelles come primo interlocutore e fare del nostro Paese la locomotiva di una rivoluzione europea, questa sì compiuta, che accanto a quei due aggettivi, “green” e “blu”, ne aggiunga un terzo. Solidale. Che porti dunque a una riapertura immediata di corridoi umanitari, all’attivazione di evacuazioni di emergenza, alla riconfigurazione altrettanto immediata delle modalità del soccorso nel basso Mediterraneo e alla redistribuzione dei richiedenti asilo nell’intero spazio Schengen.