lI riscaldamento globale è, come sappiamo, uno dei problemi più gravi che l’umanità si trova oggi ad affrontare: un problema che noi stessi abbiamo provocato con le nostre scelte e i nostri comportamenti.
Pochi però si rendono conto del terribile impatto che alluvioni, siccità, incendi e desertificazione avranno sui movimenti migratori.
Le migrazioni da sempre sono state un tratto caratteristico della storia dell’umanità, ma nell’immediato futuro rischiano di assumere dimensioni drammatiche.
Secondo la Banca Mondiale, la cosiddetta migrazione ambientale potrebbe interessare, a livello planetario, circa 143 milioni di persone entro il 2050.
Una cifra incredibile.
La migrazione climatica ha però sempre altre concause di tipo socio-economico: riguarda, infatti, soprattutto paesi con un’economia agricola a medio reddito, mentre non è presente in quelli ad alto o a bassissimo reddito.
In pratica chi è esposto agli impatti del cambiamento climatico non sempre migra.
Come mai?
La ragione è semplice: nei paesi più poveri non si dispone neppure delle risorse per partire, per cui si è costretti a subire, intrappolati nel proprio luogo di origine, le conseguenze del “climate change”; nei paesi ricchi, al contrario, ci sono i mezzi economici per assorbirne, almeno nell’immediato, i danni.
Le migrazioni indotte dal clima sono inoltre, al momento, prevalentemente interne: ci si sposta cioè verso aree del proprio paese o dei paesi vicini meno colpite e spesso si fa ritorno nel luogo di provenienza.
Tra quelle a noi vicine, le aree più investite da radicali mutamenti climatici sono quelle che vanno dal Medio Oriente fino alle zone del Sahel.
Ad esempio la badiya, una zona semidesertica a est di Damasco abitata da beduini dediti all’allevamento delle pecore e ad un’agricoltura di sussistenza, è stata colpita, dall’inizio del secolo, da una forte siccità che ha costretto moltissini clan ad abbandonare le proprie terre e a trasferirsi in città sempre più sovraffollate; da qui poi molti hanno cercato di raggiungere l’Europa.
Un’altra zona particolarmente critica è il Sahel, dove le guerre per accapararsi la poca acqua e la poca terra coltivabile si intrecciano con conflitti etnici e religiosi.
Ad esempio, secondo l’ultimo studio dell’istituto norvegese Internal Displacement Monitoring Center “l’emergere del gruppo terrorista Boko Haram nella regione del Lago Ciad, e in particolare nel Nord della Nigeria, è legato alla scarsità di risorse naturali esacerbata dalla siccità e dalla desertificazione nell’area”
Sempre secondo la Banca mondiale, le prime terre a essere svuotate dai cambiamenti climatici saranno le isole nel Pacifico, dove il livello dell’oceano sale di 12 millimetri all’anno, costrigendo decine di migliaia di persone ad emigrare.
Ma l’impatto su Africa e Medio Oriente sarà quello più sconvolgente, dal momento che riguarderà centinaia di milioni di persone; e, secondo il Postdam Institute for Climate Impact Research, “il Sahel e l’Africa subsahariana sono in assoluto le aree più vulnerabili“
La Carta dell’Onu non contempla al momento i rifugiati climatici fra quelli che hanno diritto all’asilo, ma certamente sempre più persone saranno costrette ad abbandonare i propri paesi a causa dei disastri provocati dai mutamenti climatici.
Secondo Andrew Harper, funzionario dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati: “Non c’è tempo da perdere, dobbiamo capire come proteggere queste persone, in modo che non siano costrette a fuggire”.
E l’unica soluzione davvero efficace è stabilizzare il clima globale, riducendo già da subito le emissioni di gas serra sprigionate dai combustibili fossili e dagli allevamenti intensivi: secondo molti ricercatori questi rappresentano infatti la prima causa dell’inquinamento atmosferico, anche se spesso non lo si vuole riconoscere.
La salvezza di milioni di persone passa quindi per la difesa dell’ambiente e per una radicale inversione di rotta nelle scelte economiche e di vita collettive e individuali.
Fonti: articoli su Repubblica del 10 e dell’11 Novembre