Lesbo, viaggio nell’inferno di Moria: “Non trattateci come animali”

Pubblichiamo oggi alcuni stralci di un reportage di Bernard-Henry Levy dal campo profughi di Moria, nell’isola di Lesbo, apparso il 27 Giugno su Repubblica. Le testimonianze raccolte dall’autore sono strazianti e lo portano ad un’unica conclusione: chiudere Moria e accogliere tutti i profughi in Europa.

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«Non mi hanno dato neanche un lenzuolo… Ho partorito così, senza niente, nella mia tenda, sulla plastica, mi sono dissanguata…».
[….] Il fatto è che Fatimah è sola, oggi, nel suo capanno di teloni di plastica bianchi. Il suo bambino di sei mesi, agganciato alla schiena, avvolto in una misera maglietta con su scritto “Welcome in Lesbos”, che lei ha ritagliato trasformandola in una tutina per neonati, di quelle con i piedini. I suoi fratelli più grandi, di 8 e 2 anni, rannicchiati contro di lei, sembrano ancora più terrorizzati di lei dalla presenza di un fotografo e di un interprete. Ed è in un arabo sgrammaticato, inframmezzato da lunghi silenzi, a spizzichi e bocconi, che racconta i dettagli del suo spaventoso esodo.

Il campo di transito a Gaziantep… Il marito rispedito in Turchia, tre giorni dopo il loro arrivo, sul gommone, che hanno dovuto pagare una seconda volta… Lei, ammessa in extremis perché incinta… Il bambino, che l’anagrafe greca non ha registrato e quindi non esiste… Fa freddo, in questa fine di maggio del 2020. La pioggia, che cade a scrosci, sgocciola attraverso i teli mal cuciti della tenda. Il più grande dei bambini si alza per andare a mescolare la pentola. Un topo gli passa tra le gambe e scappa via, senza che lui sembri accorgersene. Siamo a Lesbo, nel campo profughi di Moria. È una delle più belle tra le isole greche, fra quelle più cariche di storia e di leggenda: e oggi è la capitale europea del dolore.

Ero rimasto colpito, in occasione di un soggiorno precedente, dalla lettura di un rapporto di Medici senza frontiere che raccontava come una delle peculiarità di Moria fossero i suicidi di bambini. Eccone uno. Ha 12 anni. Siamo ai confini del campo, in quella zona selvaggia che viene chiamata, anche qui, la giungla, e dove sono finiti alcuni dei siriani con cui Erdogan, nel marzo scorso, minacciava di inondare l’Europa.

Durante tutta la durata dell’intervista, a parte qualche breve sguardo verso lo zio, ex maestro elementare a Idlib, che lo ha salvato e che racconta la sua storia al posto suo, terrà gli occhi fissi a terra. Tutto è cominciato, racconta lo zio, con uno stupore davanti a questa vita nuova e senza futuro. Che facciamo qui, chiedeva il bambino? Perché non si può andare a vedere il mare, che è così vicino? Perché lì mi portavi a scuola, anche sotto le bombe, mentre qui restiamo giorni interi a fissare la costa turca e a non fare niente? Resteremo prigionieri per sempre?

E poi, poco a poco, il bambino ha smesso di parlare. Ha smesso di giocare. Ha perso l’appetito e il sonno. E un mattino, quando lo zio era andato a fare la coda per ritirare la razione di pane giornaliera, un vicino ha visto del sangue scorrere nel canale di scolo. Si è precipitato. Il bambino aveva scambiato delle lamette di rasoio contro una scatola di biscotti umanitari. Si era tagliato i polsi.

A Moria, la tragedia è l’acqua. Non c’è acqua corrente. E neanche pozzi. Neanche cisterne visibili. Soltanto qualche doccia. E una ventina di punti di rifornimento idrici, dove le persone vengono durante tutta la giornata a fare la coda per riempire le loro bottiglie di plastica. Una al giorno e una per persona, mi dice un rappresentante della comunità afghana. Una sola. Ma la cosa peggiore, la più atroce, sono le latrine. Perché come si fa quando un ex accampamento previsto per 800 militari, poi per 3.000 profughi, finisce per accoglierne quasi 20.000? C’è il buco di famiglia, pestilenziale, dietro la tenda, sulla nuda terra, quando il luogo si presta e si è sufficientemente in disparte. Ci sono le tende-latrine dove si entra uno alla volta e ci si accovaccia su una panca sospesa sopra un fossatello defecatorio senza sistema di scarico. E poi ci sono le latrine pubbliche, stavo per dire ufficiali, installate dall’amministrazione o dalle Ong, e su cui si appunta ancora di più la collera di questi esseri umani privati qui della loro intimità più elementare.

Entro. Tazze spalmate di escrementi. Scarichi visibilmente intasati e infestati di mosche. L’odore nauseabondo i cui effluvi mi inseguono fino al terreno incolto, un po’ più in là, dove vado, per pensare a qualcos’altro, a tirare due calci a un pallone con un gruppo di ragazzini.

E the line, sempre the line, come se non ci fosse niente di meglio da fare, a Moria, che mettersi in fila, e mettersi in fila ancora, e mettersi in fila sempre. Ci sono quelli che si spazientiscono, spintonano e chiedono di muoversi. Ci sono quelli che sono lì per precauzione, anche se non hanno un bisogno pressante, e perché, in questo tempo che non passa, il solo passatempo è di fare la coda per tutto e per niente, tutto il santo giorno, roba da diventare pazzi. Nel momento in cui il resto dell’Europa gareggia in igienismo, Moria è il luogo dell’infezione, della corruzione, del fetore. Anus mundi.

Il solo miracolo, in questo clima, è che non ci siano più violenze e più morti. Si parla di risse tra sudanesi e siriani, afghani e iraniani, afghani e afghani, e tutti contro la manciata di congolesi, a volte musulmani, spesso cristiani, ma universalmente considerati i dannati fra i dannati.

E ancora, ci sono quelle due ragazze che, anche se insediate nella Zona C, vale a dire nella parte del campo riservata agli orfani e agli adolescenti e che teoricamente dovrebbe essere sorvegliata, mi fanno capire che non bevono più una goccia d’acqua dopo le 17 per paura di dover uscire col buio per andare al bagno. Ma la cosa straordinaria è che questa giungla in realtà non è assolutamente tale, la cosa straordinaria è che non è nemmeno una guerra di tutti contro tutti. E che malgrado la miseria, malgrado la paura, malgrado il sentimento di essere abbandonati dal mondo, restano, fra questi fratelli umani che niente e nessuno è riuscito a disumanizzare, i gesti di solidarietà che fanno sì che la vita continui.

Siamo nella parte centrale del campo, costruita in muratura, dove i funzionari dell’immigrazione hanno i loro sportelli e dove siedono i padroni di una commedia penitenziaria dove si distingue, con crudeltà erudita, l’ordine gerarchico della sventura: in fondo alla scala, il temuto timbro rosso che significa attesa indefinita a Moria; in cima, i rari e magici bolli blu che danno diritto a immigrare verso il continente; e in mezzo, il bollo nero dei minorenni o dei malati incurabili, che vengono chiamati i “Vulnerabili” e che un giorno, a forza di avvocati pagati a caro prezzo e iniziati agli arcani riti dell’amministrazione locale, avranno forse il diritto di uscire dal limbo e passare dal rosso al blu.

Il direttore del campo cammina per mostrarci, dietro i magazzini, quello che chiama il quartiere delle donne. È una galleria semicoperta, protetta da una griglia, su cui affacciano dei piccoli dormitori. Ed ecco che ne escono delle folle di donne in collera, col pugno alzato, vocianti, in maggioranza africane vestite in tuta. “È per via della vostra presenza”, farfuglia il direttore, livido. “Non vogliono essere fotografate”.

Peccato che sia il contrario. Ci fanno cenno di avvicinarci. E come delle arpie sublimi, dee degli uragani uscite da Omero e da Esiodo, si mettono a urlare: “Moria no good! Moria no good!”. Panico delle autorità. Intervento di funzionari del campo che cercano di far indietreggiare le ragazze che urlano ancora più forte. E arrivo, a passo di carica, di un’unità di polizia antisommossa che riusciamo a convincere a tornare indietro insieme a noi.

Ho portato delle mascherine da Parigi. Dei quaderni, naturalmente. Delle scatolette di paracetamolo. Anch’io, forse per conformismo, sottomissione allo spirito del tempo e convinzione, anch’io, che il covid qui assuma contorni apocalittici, ho portato pure degli scatoloni di belle mascherine blu, tutte nuove e sgargianti. La voce si è sparsa, sull’isola. Dei gruppetti di bambini sbirciano dal giorno prima la valigia rossa che abbiamo depositato nella sede di un’associazione umanitaria. E quando andiamo a cercarla per portarla su fino allo spiazzo dove due caschi bianchi siriani riconvertiti in giudici di pace ci hanno raccomandato di fare la distribuzione, ecco di nuovo la sommossa.

Prima i quaderni, che accolgono con relativa calma. Poi le medicine, stessa cosa. Ma quando arriva il momento di aprire la valigia dei tesori dove si trovano le mille mascherine, la folla diventa calca, la ressa diventa follia. E l’eccitazione rischia quasi di trasformarsi in rissa.

«Non tutti insieme», urla il casco bianco. «Uno alla volta. E una mascherina per bambino, una sola, non ce ne saranno per tutti!». Non è una distribuzione, è una festa. È meglio di una festa, è un happening al tempo stesso gioioso e straziante. Ed è quando do l’ultima mascherina all’ultimo bambino che il casco bianco mi svela il segreto. A Moria ci sono tutti i flagelli del mondo, diarree, difteriti, malattie rare e sconosciute, ma la verità è che di casi di Covid registrati c’è poco e niente. Bisogna piangerne o riderne? Scelgo di osservare i bambini che cominciano subito a travestirsi usando le mascherine come maschere di carnevale.

Volevo vedere anche i fasci. Avevo visto le immagini di questi militanti anti-immigrati che respingevano in mare con ganci d’accosto i gommoni venuti dalla Turchia e volevo assolutamente sapere cos’ha nella testa una persona che fa una cosa del genere. Ebbene, non ho dovuto allontanarmi molto per cercare. È stato Constantinos Moutzouris, il governatore di Lesbo, a organizzare l’incontro, nella sala stessa dove si riunisce, presumo, il consiglio dell’isola. Ci sono, seduti composti, fianco a fianco, ognuno con il suo microfono davanti, una ventina di notabili, alcuni pescatori, altri commercianti o professori, che hanno in testa solo i migranti.

Kostas Avalnopoulos, lavoratore del settore alberghiero ora in pensione racconta, come se fosse un atto di eroismo, di quando ha visto nella baia un’imbarcazione che stava ripescando dei naufraghi, e quando ha capito che non batteva bandiera greca, che il capitano era tedesco e che i guardacoste non facevano nulla per impedire agli “invasori” di sbarcare, ha “visto rosso” e ha preso lui le cose in mano respingendo l’imbarcazione. È fiero di quello che ha fatto? Naturalmente. A rischio di far annegare dei bambini? Certo.

Che cosa si può fare di fronte a un’infamia del genere? Niente, purtroppo. Si spera semplicemente che sia fatta giustizia. E cerchiamo di farci rimanere impressa, per non disperare completamente, qualche immagine bella. Il viso di Georgia Rasvitsou, notaia a Mitilene, che mi ha accompagnato in questo reportage, la grazia del padre gesuita Maurice Joyeux, che non si è mai ripreso dall’incendio doloso che ha ridotto in cenere, lo scorso marzo, una scuola per migranti 3 chilometri a sud di Moria: ha costruito una nuova scuola, con le sue mani, nel cuore di uno dei punti più insalubri del campo.

E poi, ieri sera, mentre scendeva la sera e il campo stava per richiudersi sulle sue piaghe e i suoi pericoli, quell’apparizione così poetica: Koko Wumba e il suo trio di migranti dalla voce d’oro, che troviamo in mezzo ai venditori abusivi che commerciano, stesi sull’asfalto, qualche galletta di pane, qualche bibita gassata e delle sigarette vendute sfuse. Sono lì per i bambini seduti in cerchio intorno a loro? Provano un concerto per il pubblico del campo? O cantano una serenata triste per questo gruppetto di visitatori francesi a cui intonano, col sorriso sulle labbra e le lacrime agli occhi: «Non piangete! Non piangete!». E poi, naturalmente, quando si torna indietro, quando si è guardato in faccia questo concentrato di orrore e miseria, e quando, al ritorno, quelle immagini di bambini con le croste, di donne coi piedi nudi e l’innocenza schernita continuano a ossessionarvi, non si sfugge alla domanda, la sola, quella che spazza via tutte le querelle ideologiche e politiche: che cosa facciamo? Aiutare, naturalmente. Testimoniare. Rilanciare, finché si potrà, la parola dei dannati.

Ma il disastro di Moria è tale che c’è solo una risposta: chiuderlo. Raderlo al suolo. O conservarlo, se si vuole, ma come si conserva un memoriale della disumanità e della vergogna. E in nessun caso, naturalmente, si può riparare l’inferno.

E questo vuol dire che le donne, gli uomini e i bambini che imputridiscono in questo carcere a cielo aperto e il cui solo crimine è di aver sognato l’Europa devono imperativamente, e incondizionatamente, essere accolti tra noi. In Grecia, naturalmente. Ma anche nel resto di un vecchio continente che deve scegliere qui fra perdere il suo onore o arricchirsi di queste anime che pazientano sulla nostra soglia.

Calcolate, signore e signori. Fate i vostri conti. Cinquecento milioni di europei che si dividono in 27 nazioni e a cui verrebbero ad aggiungersi 20mila anime in sofferenza. Una goccia d’acqua nell’oceano della nostra prosperità.

(Traduzione di Fabio Galimberti)