Libia, appello di Msf: “Migranti allo stremo, riattivate i voli di evacuazione”

Pubblichiamo oggi un appello di Medici senza Frontiere, apparso sull’edizione della Repubblica dell’11 Giugno, relativo alla necessità di riattivare i voli di evacuazione dall’inferno libico.

Parla Sacha Petiot, capomissione di Medici Senza Frontiere nel paese nordafricano sconvolto da guerra civile e covid-19: “Senza gli aerei dell’Unhcr e i rimpatri dell’Oim, l’unica via di fuga per i rifugiati è attraverso il Mediterraneo”
di FABIO TONACCI

Ombre. Sono le ombre dannate di Tripoli e della Libia intera. I 700 mila migranti presenti nel Paese che fu di Gheddafi sono ancor più invisibili oggi che il Covid-19 ha tolto loro l’unica speranza di fuggire dall’inferno dell’indigenza e dell’abuso senza passare dal mare.

Le immagini che ha scattato per Medici Senza Frontiere il fotografo professionista Giulio Piscitelli (agenzia Contrasto) a Tripoli e dintorni, e che Repubblica mostra sul sito, raccontano le decine di migliaia di vite sospese nella capitale libica, in attesa di un aiuto che il lockdown ha reso praticamente impossibile. 

Sostiene infatti Sacha Petiot, capomissione Msf in Libia, che la macchina della solidarietà e dell’asilo politico si sia interrotta con il blocco dello spazio aereo. “Per circa 1.500 persone attualmente presenti negli undici centri di detenzione gestiti dal governo di Al Sarraj la disperazione sta raggiungendo il picco. 

L’arresto dei voli umanitari dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati e dei servizi di rimpatrio dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni sulla scia delle restrizioni ai viaggi legate a Covid-19 distrugge la loro unica speranza di trovare una via d’uscita. Nelle settimane successive ai primi casi di coronavirus – aggiunge – l’aumento dei prezzi e la carenza di prodotti alimentari di base, oltre al coprifuoco, hanno influito sull’approvvigionamento di cibo nei centri di detenzione in cui forniamo assistenza medica e supporto psicologico”.

Ecco Mohamed, fotografato mentre cerca qualcosa per sopravvivere nelle discariche di Tripoli: è arrivato in Libia dal Mali nel 2015, vorrebbe tornare indietro ma non ha i soldi per farlo. Ed ecco il volto perso di Abdulbashir, 28 anni, originario del Darfur, in Libia da tre anni e sopravvissuto al bombardamento del centro di Tajoura, in cui morirono decine di persone lo
scorso luglio. Durante la prigionia un guardiano gli ha rotto il braccio destro con un bastone.

Ha provato a scappare via mare, ma è stato intercettato dalla Guardia costiera libica. E’ di nuovo lì, nell’inferno di coloro che sono due volte intrappolati: nei centri di detenzione, e nel lockdown di un Paese devastato dalla guerra civile e inseguito dal virus.

Dice ancora Petiot: “Sebbene limitate, le evacuazioni organizzate dall’Alto Commissariato Onu erano l’unica misura di protezione efficace a beneficio di una piccola parte dei rifugiati bloccati. I voli di evacuazione dalla Libia dovrebbero riprendere a funzionare, sono come un’ancora di salvataggio: all’arrivo in paesi terzi sicuri, si possono applicare misure preventive, come la quarantena, per evitare di contribuire alla diffusione del Covid-19. In
questo modo la macchina si rimetterebbe in moto”.

Quando a gennaio è stato chiuso il Centro di raccolta e partenza gestito dall’Alto Commissariato Onu, le agenzie internazionali hanno avviato un programma di sostegno urbano ai migranti e rifugiati che si trovano fuori dai centri di detenzione. “Consiste in un pacchetto di aiuti una tantum, che include un po’ di denaro, coperte, acqua e cibo – spiega Elsa Laino, 35 anni, operatrice umanitaria che lavora nei quattro centri libici (Zintan, Zliten, Homs e Tripoli) in cui Msf è riuscita a mantenere un presidio – ma questi uomini e queste donne sono abbandonati, soli, esposti a rapimenti, violenze, fame, contagio da Covid-19 e alle conseguenze della guerra civile. Non hanno un rifugio dove ripararsi”. In Libia ci sono 54 mila persone registrate come richiedenti asilo. Le ombre di un Paese intero.

Per le foto collegarsi a questo link.