“Uomini, non braccia da lavoro!”

Fonte foto 08 08 2018 Donato Fasano – LaPresse

Abbiamo in due precedenti articoli esaminato i punti salienti della regolarizzazione dei migranti attuata dal governo e ne abbiamo messo in evidenza le luci e le ombre; vogliamo oggi proporvi alcune riflessioni su questo tema da parte di alcuni esperti del settore.

Secondo l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), “Non è assolutamente giusto limitare la questione a determinati settori produttivi solo per rispondere alle esigenze [immediate] di utilizzo della manodopera.”

“Dobbiamo considerare queste persone come soggetti di diritto, non solo braccia per il lavoro”, per cui occorrerebbe un permesso di soggiorno di almeno un anno sia per lavoro che per la ricerca di un’occupazione. Un permesso che sia rinnovabile e anche convertibile, ad esempio da permesso per lavoro a uno per famiglia o studio: questo per combattere la situazione di assoluta precarietà degli stranieri in Italia.

Bisogna tra l’altro tener presente che solo chi è in possesso di un titolo di soggiorno può usufruire a pieno del diritto alla salute, a partire da quello di avere un medico di base. E un permesso di pochi mesi non garantisce certo la tutela di questo diritto basilare.

Secondo Aboubakar Soumahoro, sindacalista dell’USB, tutte le leggi sull’emigrazione varate finora sono sempre state emanate “sulla base del paradigma dell’utilità che stabilisce che un permesso di soggiorno debba essere concesso a persone utili alle esigenze del mercato del lavoro e dell’economia del paese”.

In quest’ottica, “il valore della vita umana viene valutata in base alla sua “utilità” e alla sua produttività. Ovvero un essere umano ha il diritto di esistere non perché “è” ma perché “fa”, quindi è utile”.

Un altro paradigma è quello della paura secondo cui “serve regolarizzare i migranti perché rischiano di diventare potenziali untori”. E’ come se non si riuscisse proprio, anche da parte delle forze politiche progressiste, a cambiare punto di vista: qui non si tratta di difendere “noi” dagli “altri” ma di riconoscere che “lo Stato ha il dovere di salvare la vita di tutti, allogeni e autoctoni, al fine di salvaguardare il diritto inalienabile all’esistenza”.

Occorrerebbe in pratica entrare nella logica che alcune scelte non si fanno perché sono vantaggiose per noi, dal punto di vista economico o della difesa della nostra salute , ma perché sono le scelte giuste.

Laura Zanfrini, sociologa dell’Università Cattolica, sottolinea invece che la regolarizzazione, pur presentando tanti vantaggi per i migranti, non ha di per sé il potere di cambiare i rapporti di lavoro, come solitamente si pensa.

“I problemi di grave sfruttamento – che a volte rasentano la schiavitù – non riguardano solo gli immigrati irregolari, bensì anche un buon numero di migranti regolari, richiedenti asilo, e finanche di lavoratori italiani.”

Le condizioni di sfruttamento in alcuni settori sono tali che è difficilissimo, anche in periodo di crisi, trovare manodopera disponibile. Non a caso è stata proprio la difficoltà, data l’epidemia di Coronavirus, di utilizzare manodopera proveniente dall’est europeo a spingere anche forze politiche riluttanti ad invocare la regolarizzazione. La quale certamente rappresenta un grande passo avanti, ma da sola non basta.

Occorre garantire un lavoro dignitoso e sicuro a tutti, autoctoni e stranieri, con leggi severe contro il caporalato e con controlli costanti dell’Ispettorato del Lavoro.

Secondo Federico Olivieri, ricercatore presso il Centro interdisciplinare di Scienze della Pace di Pisa, le forze politiche governative che hanno voluto la regolarizzazione hanno avanzato soprattutto una motivazione sanitaria: le condizioni di lavoro ed abitative dei migranti irregolari li rendeva infatti troppo esposti alla diffusione del Covid-19.

Ma “La natura fortemente selettiva dell’attuale emersione [limitata cioè solo ad alcuni settori] costituisce una spia del fatto che le ragioni sanitarie costituiscono, nel decreto governativo, un elemento più retorico che reale.”

Un’altra motivazione è stata quella della giustizia: non si poteva più mantenere in una situazione di irregolarità circa 600.000 persone che o non avevano potuto ottenere un permesso di soggiorno a causa della Legge Bossi-Fini (che impone per entrare in Italia il possesso di un contratto di lavoro stipulato quando si è ancora nel proprio paese) o che sono divenute irregolari a causa del primo Decreto Sicurezza che ha abolito la Protezione
umanitaria.

Ma anche in questo caso non possiamo non chiederci perché allora non sono stati regolarizzati tutti i migranti che si trovavano in questa situazione. Evidentemente le vere ragioni del provvedimento governativo sulla regolarizzazione sono altre.

Infatti, secondo Olivieri “L’idea di una regolarizzazione selettiva è stata avanzata da alcune forze politiche di governo che si sono fatte portavoce delle richieste dei produttori agricoli, afflitti dalla carenza di manodopera” ma è anche “il risultato del cedimento al ricatto dell’opposizione “sovranista”, che ha attaccato violentemente il principio stesso della
regolarizzazione”.

Restringere la regolarizzazione solo a pochi settori, secondo Olivieri, potrà anche provocare un “mercato nero” della sanatoria, cioè, come già nel passato, molti migranti proveranno a pagare personaggi senza scrupoli che, in cambio di denaro, dichiareranno un precedente rapporto di lavoro o li assumeranno “pro forma”. Anche per Olivieri, inoltre, il permesso di soggiorno non garantisce i migranti dallo sfruttamento e dal lavoro nero o grigio in quanto il legame tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno li rende particolarmente vulnerabili sul mercato del lavoro.

Pur di garantirsi il rinnovo del contratto di lavoro, condizione per poter continuare a stare in Italia, i migranti probabilmente continueranno ad accettare, come hanno sempre fatto, orari di lavoro stressanti e retribuzioni da semi-schiavitù.

Fonti:
Huffpost del 29 Aprile;
Manifesto del 23 Maggio,

“Scienza e Pace Magazine”, rivista di informazione e analisi curata dal Centro Interdisciplinare di Scienze per la Pace, del 21 Maggio