I centri di accoglienza ai tempi del Coronavirus

Dopo aver esaminato, in un precedente articolo, la situazione dei tanti migranti impiegati nei lavori agricoli, affrontiamo oggi quella dei richiedenti asilo accolti nei CAS ( Centri di accoglienza straordinaria).

Nonostante l’emergenza sanitaria, parecchi migranti che avevano concluso l’iter dell’accoglienza e avevano ottenuto il permesso di soggiorno sono stati, nei mesi di febbraio e marzo, espulsi dai centri e lasciati per strada. È a nostro avviso inconcepibile che, in un momento in cui noi Italiani eravamo (e in parte siamo ancora) obbligati a stare in casa, si facciano uscire delle persone dai centri senza offrire loro un’ alternativa abitativa di emergenza.

Unica lodevole eccezione, a quanto ci risulta, è stata quella della Prefettura di Palermo che ha inviato una nota a tutti i responsabili dei CAS della provincia per sollecitarli a garantire l’accoglienza anche a chi non ne ha più diritto. Un altro problema è però quello delle condizioni in cui si vive in questi centri.

Solo l’accoglienza diffusa, quella dell’ex SPRAR, ora SIPROIMI, gestita dai comuni in collaborazione con gli enti del terzo settore, si realizza in appartamenti inseriti nei contesti urbani. Ma, in seguito ai decreti sicurezza, si è andato drasticamente riducendo il numero dei posti in accoglienza diffusa a favore dei CAS, che fanno capo alle Prefetture e che oggi ospitano circa il 73% di richiedenti asilo e rifugiati.

La maggior parte di questi centri ospita centinaia di persone, alle quali sono offerti servizi comuni e dove la distanza di sicurezza è impraticabile. E ora la logica del contenimento, della separazione e del controllo dei migranti in queste mega strutture rischia di ritorcersi anche contro le comunità locali e di aggravare ulteriormente la situazione sanitaria.

Un eventuale diffondersi del contagio nei centri d’accoglienza verrebbe inoltre sicuramente usato per ridare fiato a posizioni xenofobe e razziste che, in questa fase nella quale il Paese è obbligato a occuparsi di problemi reali e molto drammatici, si sono decisamente sopite. Sarebbe auspicabile in questo momento, come hanno chiesto già molti Comuni, andare verso un sistema unico basato sulla rete pubblica, avviando un progressivo trasferimento da CAS a SIPROIMI, sistema nel quale, pur con tanti limiti, la dignità delle persone è rispettata e viene favorita la relazione tra i beneficiari dell’accoglienza e le comunità che li ospitano.

fonte: Il Manifesto 22/3/2020