Nell’articolo della scorsa settimana abbiamo visto come tra i fattori che spingono le persone a migrare ci siano anche le crisi ambientali.
Oggi cercheremo di approfondire questo aspetto del problema.
Dal 2008 al 2017 in media 25,2 milioni di persone ogni anno hanno dovuto abbandonare la loro abitazione a causa di disastri ambientali, spostandosi comunque prevalentemente all’interno dei confini del proprio Paese (nel 2017 ad esempio 18,8 milioni di persone sul totale di quelle che si sono spostate sono rimaste nei confini nazionali).
Secondo l’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni, gli spostamenti forzati a causa di disastri ambientali sono triplicate rispetto a 40 anni fa e secondo la Banca Mondiale entro il 2050 saranno 250 milioni le persone che si muoveranno all’interno del proprio Paese di origine o oltrepasseranno i confini per questo motivo.
Dagli inizi della storia dell’uomo la migrazione è sempre stata una risposta sia ad eventi naturali catastrofici che a situazioni climatiche avverse; però oggi, secondo l’International Panel on Climate Change (IPCC), il cambiamento climatico ha un’importanza crescente tra i fattori che determinano la migrazione.
Persone o intere comunità possono spostarsi a causa di eventi climatici improvvisi e distruttivi, ad esempio terremoti, alluvioni, tsunami, ma possono anche fuggire da condizioni di vita rese insostenibili da crisi ambientali i cui effetti si manifestano più lentamente; pensiamo ad esempio alle siccità, alle desertificazioni e cambiamento del regime delle acque provocate dall’aumento della temperatura globale.
Il cambiamento climatico e il degrado ambientale influenzano quindi l’incremento dei flussi migratori per l’impatto significativo che hanno sui mezzi di sostentamento delle popolazioni che vivono nelle zone più vulnerabili del mondo dal punto di vista ecologico.
Secondo la FAO, i disastri naturali sono costati ai Paesi in via di sviluppo 96 miliardi di dollari a causa delle colture e dei pascoli danneggiati o persi tra il 2005 e il 2015. E non a caso la maggior parte dei flussi migratori provengono dalle aree rurali che sono più esposte alla pressione ambientale: vi sarebbe pertanto un rapporto direttamente proporzionale tra l’aumento delle richieste d’asilo e le variazioni climatiche.
Ma per la comunità internazionale i migranti ambientali non godono di alcun riconoscimento giuridico specifico.
Ci troviamo di fronte ad un assurdo paradosso:
1)gli effetti distruttivi del cambiamento climatico impattano maggiormente sui paesi e sulle persone più povere, che sono anche i minori responsabili del degrado ambientale del pianeta
2)si riconosce che questo tipo di impatto è ormai una delle cause prevalenti delle migrazioni
3) giuridicamente non si riconosce la figura del rifugiato ambientale all’interno di leggi e accordi internazionali.
In pratica, a pagare in primis le spese di un modello di sviluppo basato sull’utilizzo di fonti energetiche inquinanti e sullo spreco di risorse naturali sono coloro che non ne beneficiano affatto e che non hanno i mezzi economici per fronteggiare condizioni avverse.
Infatti la maggior parte dei fenomeni naturali più eclatanti che si manifestano sul pianeta (a cui stiamo ormai assistendo anche noi che popoliamo la fascia temperata) non sono casuali, ma sono legati al cambiamento climatico, che gli scienziati ormai unanimemente collegano direttamente all’attività umana.
La comunità scientifica prevede infatti che, se non si prendono provvedimenti urgenti, la temperatura media della superficie terrestre, entro fine secolo, aumenterà tra i 3 e i 4,9 °C rispetto al periodo pre-industriale.
Le conseguenze potrebbero essere devastanti: fenomeni meteorologici estremi sempre più frequenti. desertificazione, scioglimento dei ghiacci, innalzamento del livello dei mari, diffusione di malattie tropicali in zone a clima temperato.
Nel 2015 a Parigi la comunità internazionale, con l’Agenda 2030, si è impegnata a limitare l’aumento del riscaldamento globale a 2°C; secondo molti scienziati è ancora ancora troppo poco per evitare rischi importanti.
Occorre puntare ad un aumento massimo di 1,5° della temperatura terrestre, considerato come la soglia di sicurezza, ma sappiamo che paesi come gli Stati Uniti, che sono tra i principali responsabili dell’inquinamento e del surriscaldamento, hanno deciso di recente di non rispettare gli impegni presi a Parigi.
E purtroppo non c’è ancora una piena consapevolezza a livello internazionale del fatto che non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale per cui la lotta contro la povertà non può essere disgiunta da quella contro i cambiamenti climatici.