Il capro espiatorio

Spesso sentiamo dire che i paesi europei non traggono alcun beneficio dall’immigrazione e che anzi la loro economia ne viene fortemente danneggiata.

Ci troviamo anche in questo caso di fronte ad un “mito”, ovvero ad un’affermazione non fondata scientificamente.

Partiamo da un po’ di dati: i 2/3 dei migranti internazionali sono rappresentati da popolazione attiva, ossia da persone in grado di lavorare.

In Italia 3 migranti su 4 lavorano (soprattutto nel settore dei servizi e della cura: circa 1 milione sono infatti collaboratori domestici o badanti) e producono circa il 10% della ricchezza nazionale. Pagano regolarmente le tasse e i contributi sociali, contribuendo così a garantire la pensione anche agli italiani.

Il tasso d’invecchiamento in Europa è infatti particolarmente elevato e vi sono più persone in età pensionabile che giovani in età di lavoro, cosa che comporta una forte pressione sui servizi pubblici e sul welfare.

Il fenomeno è particolarmente allarmante in Italia: all’inizio del Novecento la metà della popolazione aveva meno di 25 anni; oggi  invece ce l’ha  meno di un quarto.

Tra il 1996 e il 2015 si è registrato un calo della popolazione tra i 20 e i 39 anni di 4 milioni di persone: come se fosse scomparsa l’intera popolazione del Piemonte, con tutta la sua potenzialità produttiva.

Mentre diminuisce il numero di chi produce ricchezza, aumenta quello di chi la consuma: la popolazione anziana è sempre più in aumento e sempre più bisognosa, a causa dell’allungamento della vita, di cura, assistenza e medicine.

La diminuzione della natalità è dovuta a molteplici  e complesse cause tra cui un inserimento nel mondo del lavoro sempre più ritardato nel tempo , assenza di servizi, mancanza di incentivi alle giovani coppie, emigrazione dei giovani verso altri paesi.

Se pure i nostri governi si impegnassero da subito per sanare questo squilibrio tra natalità e mortalità e tra popolazione attiva e non attiva, occorrerebbero non meno di 20 anni per vedere i primi frutti.

L’unica, immediata soluzione a questo problema epocale l’abbiamo davanti agli occhi ma non vogliamo vederla, anzi la consideriamo una peste: è l’ingresso in Europa  di quei giovani che scappano da guerre, crisi ambientali, fame, o  che vengono anche solo in cerca di una vita più dignitosa.

Questi giovani non vanno solo caritativamente salvati e accolti, ma va programmato per loro un regolare inserimento lavorativo.

Chiaramente a questo ragionamento si potrebbe obiettare che, se inseriamo con regolarità gli immigrati nel mondo del lavoro, il tasso di disoccupazione della popolazione italiana, già così alto soprattutto tra i giovani, continuerà ad aumentare e che quindi piuttosto che impiegare chi viene da fuori occorre innanzitutto offrire  lavoro ai giovani italiani.

A questa obiezione lasciamo rispondere l’autorevole voce del Governatore della Banca d’Italia che,  intervenendo presso l’Università Politecnica delle Marche, in occasione della ‘Lezione Giorgio Fua’ 2019′, ha dichiarato:

Per rimuovere gli ostacoli che frenano l’attività produttiva e l’imprenditorialità degli italiani occorre un piano di misure organico che intervenga sia sul lato dell’offerta sia su quello della domanda. Un piano efficace richiede di abbandonare definitivamente la facile e illusoria ricerca di capri espiatori – l’Europa, la finanza, i mercati, gli immigrati – per fondarlo invece su un’analisi approfondita dei mali della nostra economia…. “anche l’immigrazione può dare un contributo alla capacità produttiva del Paese. Gli studi non rilevano effetti negativi dell’immigrazione sui lavoratori del paese ospitante nè in termini di tassi di occupazione nè di livelli retributivi. Vanno però affrontate con decisione le difficoltà nell’integrazione e nella formazione di chi proviene da altri paesi così come quelle che si incontrano nell’attirare lavoratori a più elevata qualificazione”.

In conclusione, come già abbbiamo avuto modo di dire in altre occasioni, non sono i migranti la causa della disoccupazione in Italia o delle carenze del welfare. Le cause vanno ricercate nella recessione mondiale, negli scarsi investimenti nel campo delle nuove tecnologie, nell’evasione fiscale che sottrae enormi ricchezze agli investimenti pubblici.

Ma di fronte a problemi complessi  di difficile soluzione è molto comodo trovare un facile capro espiatorio.