Come e perché si muore nel Mediterraneo

“Il diritto internazionale prescrive che, in caso di situazioni di pericolo in mare, si debba intervenire per portare rapidamente soccorso, ma anche che gli uomini e le donne aiutate siano portate in porti sicuri.    
Un porto sicuro è il porto di un paese che rispetta le convenzioni internazionali e che quindi garantisce il rispetto della dignità e dei diritti delle persone che accoglie.
La Libia, come sostenuto dall’Alto Commissariato dell’ONU per i rifigiati (e un po’ ipocritamente dalla stessa Commissione europea…) non ha nessuno di questi requisiti, soprattutto da quando è scoppiato nuovamente il conflitto armato tra le due opposte fazioni presenti in quel paese; eppure il nostro governo continua a sostenere che i migranti in pericolo che si trovano in acque territoriali libiche debbano essere soccorsi esclusivamente dalla locale guardia costiera che li deve riportare in Libia.
Se poi ci spostiamo un po’ più a nord nel Mediterraneo, nelle acque internazionali, troviamo una vasta zona in cui non ci sono navi italiane o dell’Unione europea impegnate in missioni di soccorso : infatti se l’operazione Mare Nostrum prevedeva che la linea di pattugliamento delle
navi italiane si spingesse fino alle acque libiche, la successiva operazione Triton si attestava a circa 30 miglia dalle coste europee, comprendendo Lampedusa e Malta.
Il primo febbraio 2018, l’operazione Themis ha sostituito Triton, stabilendo una maggiore copertura: infatti le navi di Frontex possono spingersi fino a 24 miglia di distanza dalle coste libiche, ma rimane pur sempre una vasta zona in cui si rischia di morire senza che ci sia nessuna nave ad intervenire.
I soccorsi in mare sono comunque drasticamente diminuiti nella seconda metà dell’ultimo anno. Secondo un rapporto dell’ UNHCR “Dalla seconda metà di Giugno 2018, la Guardia Costiera e la Marina italiana che fino ad allora nel corso dell’anno avevano tratto in salvo oltre 2.600 persone partite dalla Libia, non hanno condotto nessun altro salvataggio al largo della costa libica. Anche le navi impegnate nell’operazione Sophia di EUNAVFOR Med, che fino al mese di maggio avevano tratto in salvo oltre 2.200 persone, tra giugno e dicembre hanno soccorso un altro gruppo soltanto. 

Quanto alle navi delle ONG, da quando la loro azione è stata ostacolata attraverso una progressiva delegittimazione del loro operato, seguita da una vera e propria criminalizzazione che ha portato al sequestro di alcune navi e all’apertura di indagini nei confronti dei responsabili, sono pochissime quelle ancora in azione.
E così, se è vero che parte meno gente dalla Libia, sempre più ne muore in percentuale. E probabilmente i dati a nostra disposizione sono errati per difetto perchè spesso nel Mediterraneo si muore senza che se ne sappia niente. Ma perché si muore tanto nel Mediterraneo?

La ragione è la chiusura degli ingressi legali in Europa per cui per chi vuole raggiungere l’Europa, per i più svariati motivi, non resta altro che raggiungere la Libia e da lì pagare a caro prezzo una traversata su barche malferme e spesso destinate ad affondare.
Certamente, l’allontanamento delle navi umanitarie e di navi governative destinate al salvataggio ha contribuito all’aumento dei naufragi, ma sono le condizioni della partenza dalla Libia e la chiusura di tutti gli altri canali di ingresso le principali cause. Oggi, una persona su 6 di quelle che partono muore. (dato tratto dal rapporto “Viaggi Disperati” pubblicato dall’UNHCR ).
E chi parte lo sa.
Facciamo una sforzo di immaginazione e mettiamoci nei panni di chi parte sapendo che per lui c’è una possibilità su 6 di non arrivare e chiediamoci se è moralmente accettabile mettere le persone nella condizione di compiere questa scelta.
Spesso ci si sente dire che per evitare le morti i migranti devono essere aiutati a casa loro. Una risposta incredibilmente superficiale e generica perchè le condizioni dei paesi di provenienza sono estremamente diversificate.
Se si fugge dalle guerre è un obbligo per i paesi europei offrire un posto sicuro dove rifugiarsi, oltre che smettere di fornire gli armamenti.
Se si parte per costruire un futuro migliore, in luoghi più democratici e liberi, allora aiutarli in casa “loro” significa innanzitutto smettere di sostenere governi repressivi, cosa che l’Italia e l’Europa non hanno mai smesso di fare e non sembrano intenzionati a fare ( basti prendere ad
esempio il Ciad, il cui governo dittatoriale è ampiamente sostenuto dalla Francia) e smettere di estrarre ricchezze da paesi che non ne traggono alcun profitto. Gli interventi umanitari sono importanti nell’emergenza, ma per superarla occorrono misure razionali, serie, non dettate dall’egoismo, dal mercato o dai rapporti di forza.
Se poi si sostiene che i migranti devono essere aiutati a casa loro perché non chiedere anche ai paesi in cui emigrano tantissimi italiani, spesso giovani competenti e preparati, come tanti ragazzi e ragazze che dall’Asia e dall’Africa cercano di raggiungere l’Europa, di aiutarli a casa loro ?!!
L’Europa, con le sue politiche di chiusura delle frontiere, ha reso il Mediterraneo l’unica strada possibile da percorrere, mettendo a rischio la propria vita.
Le politiche europee non hanno mai puntato davvero a gestire in maniera razionale il fenomeno migratorio. Sono diventate invece il terreno di lotta politica per guadagnare consenso.
L’unico modo razionale per gestirlo, a nostro avviso, sarebbe l’istituzione di canali di ingresso legale in Europa che permetterebbe tra l’altro una redistribuzione tra i vari paesi in modo ordinato e regolare”.

Maria Pia De Salvo

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